Si chiama quasi come il film di Mimmo Calopresti (Preferisco il rumore del mare, 2000), ma non è un film drammatico, l'inizio ricorda Tarantino, ma nulla a che vedere con il Pulp, e sul finale ricorda Soldini, ma non è una commedia, è Tutti i rumori del mare, l'esordio di Federico Brugia, milanese classe 1967. Il protagonista è X (Sebastiano Filocamo), un uomo che ha annullato la propria identità e lavora per un'organizzazione criminale per la quale trasporta merci e persone, in particolare donne da avviare alla prostituzione d'alto bordo. Vive in un albergo abbandonato e la sua vita è scandita da un ordine geometrico maniacale, routine, ricordi dolorosi, Tetris e rapporti con altre esistenze sospese. Ma quando ad X viene chiesto di condurre in Italia Nora (Orsi Tóth), l'incontro con un'umanità più fragile riporta a galla emozioni cui aveva rinunciato e il viaggio da Budapest all'Italia in compagnia della ragazza lo spingerà a mettere in discussione la sua non-esistenza.
Potrebbe essere un noir, tanti sono gli omaggi al cinema di genere francese degli anni '70, ma poi si perde nel tempo dell'attesa, nelle atmosfere rarefatte e nelle sospensioni. Ambientato in Ungheria, “il migliore dei paesaggi possibili” per rappresentare il limbo esistenziale del protagonista, ricalca in pieno lo stile Brugia, quello dei pluripremiati spot pubblicitari e videoclip che anche qui regala momenti di grande valore estetico, dettagli metafisici, piccoli particolari che descrivono più di mille parole - quelle eccessivamente didascaliche della voce fuori campo - ma che non riescono a comporre un puzzle organico. L'onda di immobilità emotiva dilagante e l'asetticità delle ambientazioni contagiano anche lo spettatore, che fatica a provare un po' di empatia per l'immobilità impassibile dell'espressione di quell'uomo invisibile che tenta di sciogliere i suoi Grovigli, come canta Malika Ayane nei titoli di coda.