Prima di tutto, Tre ciotole è una notevole e intelligente operazione industriale (di Cattleya, Ruvido Produzioni, Bartlebyfilm e Vision Distribution), per certi versi simile a Le otto montagne, il fortunato adattamento del romanzo di Paolo Cognetti. Anche qui ci sono un bestseller molto amato e un’intelligente sintesi tra locale e internazionale, con una storia attraversata da temi universali, ambientata in un posto ben riconoscibile e filtrata dallo sguardo di una regista straniera. Non solo: in comune hanno anche un côté arthouse, con il formato 4:3 e la pellicola (con inserti in Super 8).

Tuttavia, a differenza della trasposizione di Felix Van Groeningen e Charlotte Vandermeersch, il film diretto da Isabel Coixet deve fare i conti con qualcosa di più grande: l’eredità politica e culturale di Michela Murgia, l’autrice del libro omonimo, che continua evidentemente a riecheggiare nella società italiana. Tre ciotole – che Coixet ha scritto con Enrico Audenino – non mette in immagini i dodici racconti del volume, ma li usa per costruiree una storia compatta, focalizzata su un’insegnante di educazione fisica (Alba Rohrwacher) che, appena lasciata dal compagno chef in ascesa (Elio Germano), si chiude in se stessa e scopre che l’improvvisa inappetenza è il sintomo di inoperabili metastasi al quarto stadio.

Alba Rohrwacher in Tre ciotole
Alba Rohrwacher in Tre ciotole

Alba Rohrwacher in Tre ciotole

(Greta De Lazzaris / Cattleya / Bartleby)

Tre ciotole diventa così una sorta di biografia immaginaria di Murgia (si passa anche per Cambio, il locale in cui scrisse il libro, nel cuore di Trastevere, il quartiere in cui abitava) attraverso i materiali offerti dalla sua opera e altre suggestioni (il K-pop, passione conclamata, con il cartonato di un cantante a farle compagnia nella solitudine del crepuscolo, ma anche il tema più sommerso della famiglia elettiva), un’esplorazione nei Rituali per un anno di crisi per restituire più un’avventura umana che un profilo intellettuale, un’esperienza pratica piuttosto che una meditazione teorica.

In questo senso è interessante la scena in cui il gentile collega di filosofia (Francesco Carril) dice alla protagonista di diffidare delle interpretazioni superficiali secondo cui “l’uomo è ciò che mangia”, la massima di Feuerbach, sia un motto salutista ma, al contrario, la consapevolezza che è la materia a generare lo spirito (d’altronde “lo stomaco è il nostro secondo cervello” dice la gastroenterologa interpretata da Sarita Choudhury).

Elio Germano e Alba Rohrwacher in Tre ciotole
Elio Germano e Alba Rohrwacher in Tre ciotole

Elio Germano e Alba Rohrwacher in Tre ciotole

(Greta De Lazzaris / Cattleya / Bartleby)

È tutto molto diretto e dritto, in Tre ciotole, che sin dal titolo mette in campo le graziose e dozzinali scodelle ottenute grazie ai punti del supermercato, i referenti simbolici più visibili di un film che si apre e si chiude con stormi di uccelli in volo, e, tra gelati e supplì, si divide tra una Roma filtrata dall’occhio di una forestiera (c’è un pizzico di esotismo in questo centro da cartolina, ma anche una curiosa attenzione a edicole sacre e piste ciclabili) e una casa che ritrova luce e colore solo avvicinandoci alla fine.

Per Coixet, una regista sempre interessata alla dimensione sensoriale, è un gioco di specchi – e ce ne sono tanti, compreso uno grande che appare all’improvviso dandoci una piccola vertigine – con La mia vita senza me (il ristorante di Germano, Senzafine, si chiama come la canzone preferita da Sarah Polley e Mark Ruffalo nel film del 2003, e l’interprete del brano, Ornella Vanoni, ritorna qui con Sant’allegria nella versione con Mahmood), con la rabbia causata dalla deriva degli eventi che si trasforma in un percorso che rifiuta il pietismo e si confronta con la paura del dolore (il grande rimosso della nostra società, per dirla con Byung-chul Han).

Silvia D'Amico e Alba Rohrwacher in Tre ciotole
Silvia D'Amico e Alba Rohrwacher in Tre ciotole

Silvia D'Amico e Alba Rohrwacher in Tre ciotole

(Greta De Lazzaris / Cattleya / Bartleby)

Non immune al midcult, Tre ciotole è poco omogeneo nello svolgimento (il “secondo capitolo”, dedicato allo spaesamento sentimentale e urbano di Germano, è incastrato tra il primo e l’ultimo completamente allineati allo sguardo di Rohrwacher) e ondivago nella direzione degli interpreti (la migliore in campo è Silvia D’Amico, sorella empatica e sbalestrata), ma è abile nell’intercettare le emozioni del suo pubblico di riferimento con una serie di stratagemmi di sicura presa. E un momento finale, sui titoli di coda, che è forse la cosa più tenera di un film che, tra l’altro, ragiona anche sul perché le persone sentano il bisogno di recensire tutto, comprese le tapparelle elettriche: è uno dei tanti modi per sconfiggere la solitudine, dice qualcuno.