Classe 1985, tedesco, Timm Kröger ha il senso per i titoli: The Council of Birds (opera prima alla Settimana della Critica nel 2014), The Trouble with Being Born (2020) e ora, in Concorso a Venezia 80, The Theory of Everything, con buona pace di Stephen Hawking e del biopic di James Marsh.

Il trentenne ha teoria e prassi, se non del tutto, di molto, di buono: la sua terza volta dietro la macchina da presa frulla Nolan, dal bianco e nero di Following a Memento e Inception, Orson Welles, anche attore per conto terzi: Il terzo uomo, Alfred Hitchcock, e non solo per La donna che visse due volte, tanta parte dell’Espressionismo tedesco, Fritz Lang in testa, e perché no quel nume sottovalutato che è Robert Siodmak. Per tacere di Les yeux sans visage di Franju e del multiverso, da far impallidire Marvel, Spider-Man e vergognare quell’Oscar rubato di EEAAO.

Incredibile ma vero, nonostante la messe, e la mole, di riferimenti la Teoria suona originale, come un Robert Eggers (Lighthouse) non potrà mai essere. Aleggia la paranoia sulle Alpi svizzere, la Guerra è Fredda ma per temperie echeggia l’approssimarsi della Seconda Mondiale splendidamente messo su pagina da Caccia alla marmotta di Ulrich Becher (Timm facci un pensiero…), a distaccarlo è il voltaggio lynchano, che trasfigura psicosi, ordisce trame, raddoppia e sdoppia ossessione fantasmatiche, amori a scomparsa, scienza e morte, quanti, ehm, quali e raggi alieni.

Anno 1962, un congresso di fisica sulle Alpi svizzere, il tesista brillante Johannes Leinert (Jan Bülow), il professore recalcitrante ad accoglierne le tesi disturbanti Dr. Strathen (Hanns Zischler), la femme fatale Karin (Olivia Ross): un triangolo più che trilaterale, il multiverso che spariglia le carte (e le vite), uranio e tunnel a perdere, bagliori nucleari, un mistero che come l’universo è in espansione.

Quel che ci viene offerto in bianco e nero, fotografia estatica di Roland Stuprich (già che ci siamo, il montaggio di Jann Anderegg è virtuosistico quanto mesmerizzante), viene dopo un prologo in cui Johannes presenta in tv il libro che “stiamo per vedere”: abortita la tesi, pervertito il saggio divulgativo, ne ha fatto un romanzo, ma l’occasione editoriale non ne scalfisce la realtà, non ne calmiera la verità. A suo dire, eh, che però denuncia aporie, fragilità, mera attendibilità: Johannes non ci fa, lo capiamo subito, ci è, ma cosa, addirittura, chi è?

In quota si muore, ci si innamora, ci si gratta, sopra tutto si è debilitati e sballottati nella percezione: che sta succedendo in, su, per quella montagna, che sta accadendo in quest’altro Overlook Hotel, e quali tesi inconfessabili propugna il tesista braccato e braccante che ne farà ragione di vita e oltre?

Kröger, che scrive a quattro mani con Roderick Warich, non solo conosce la Storia del Cinema, ma sa il fatto suo: The Theory of Everything confonde e rapisce, intriga e s’intrica, riguadagnando allo schermo funzione mitopoietica, fascinazione stilistica, valenza epistemologica.

Ma l’aspetto più interessante, via un ordinamento orizzontale che confligge apertamente con le odierne letture verticali, è il metacinema che The Theory of Everything dispensa: la traduzione da esperienza a tesi, quindi saggio e infine romanzo dischiude il problema dello status (quo) e dunque del come vediamo; la teoria di citazioni, riferimenti, simmetrie ed evocazioni riflette (sul) come eravamo sullo schermo e siamo diventati; la presunzione del tutto (che fu) la possibilità di molto (che ancora è) in capo alla Settima Arte.

Non ci sono solo dotti e sapienti pensieri, ma l’ironia amara che chiama in causa, nell’adattamento messo en abyme dell’eponimo La teoria del tutto, i nostrani, tremendi B-movies anni Sessanta: chissà in Mostra che effetto sortirà.