“Mio nonno ha lasciato al mondo intero tanti capolavori. A noi, nemmeno una lira”. Promette ciò che mantiene sin dalle prime battute, The Rossellinis (evento di chiusura della 35a Settimana Internazionale della Critica), esplosivo, ironico e a suo modo struggente documentario che Alessandro Rossellini, nipote di Roberto e figlio di Renzo, ha diretto non tanto per riannodare i fili della memoria quanto per mettere a nudo le splendide e folli contraddizioni di una dinastia.

Si parte con il funerale del patriarca, si chiude con il servizio fotografico per Vogue Italia con l’incoronazione ideale della reggente, zia Isabella, che nel film emerge come la nuova, operosa, suprema matriarca che ha reso “brand” il cognome e ha dovuto mantenere una marea di parenti scapestrati.

 

Il fantasma di Roberto, adorabile egoista che ha amato e figliato con spettacolare leggerezza, aleggia e domina le vite degli eredi, che Alessandro reputa tutti affetti dalla “rossellinite”, una specie di malattia incurabile che porta i congiunti a vivere nel dolore di non essere all’altezza del capofamiglia.

Isabella Rossellini
Isabella Rossellini
Isabella Rossellini
Isabella Rossellini

E se a zia Isabella (inizialmente definita con borghese perfidia “una ex modella”) spetta il compito di mettere le cose a posto, garantire l’ordine, rinnovare il glamour, rivendicare una cultura e il diritto di contaminarla come propugnato dal babbo (“ha lasciato tracce in tre continenti”), agli altri tocca il dovere di svelare le fragilità di vite agiate e complicate, in definitiva alla continua ricerca dell’attenzione paterna. Dell’amore, insomma.

Lo stesso Alessandro, fotografo con alle spalle una brutta storia di tossicodipendenza, si propone come specchio in cui i parenti possono intravedere il lato oscuro e i dolori rimossi di una stirpe. Una coatta terapia personale e collettiva in cui una delle famiglie reali del cinema - borghesissima e multietnica - prova a dirsi la verità, finalmente. E fai i conti con la figura paterna, che accidentalmente è anche uno dei padri del cinema moderno.

 

Dall’esistenza apparentemente leggiadra dell’ex viveur Robin alle timidezze di Ingrid mai a suo agio nel ruolo di figlia della Bergman (“non sarò mai bella come lei”: la sofferenza data dall’invidia verso i belli è un fil rouge importante) fino al padre Renzo, la cui decadenza fisica pare essere un contraccolpo dello strenuo tentativo di accreditarsi agli occhi del padre (anche da morto) come degno rampollo.

E in questa storia di fantasmi c’è anche un altro spirito che attraversa l’inquietudine della dinastia: l’indiano Gil, il figlio adottivo che forse è stato “il più Rossellini di tutti” per estro creativo e autodistruzione, anche lui dedito alle droghe e morto prematuramente. Il silenzio della sorella Raffaella è piuttosto indicativo per capire che siamo sempre nei pressi di Tolstoj: ogni famiglia è infelice a modo suo. Se vi siete persi nell’albero genealogico, non preoccupatevi: è normale, lo stesso Alessandro più volte ricorda (a noi, a se stesso) i legami. Grande film.