Per gli amanti del giallo ad oltranza, The man from London è uno dei romanzi di Georges Simenon senza i baffi e il Quai des Orfevres del commissario Maigret. Per Bela Tarr è, invece, grezza materia narrativa plasmabile ed adattabile al proprio stile cinematografico. L'uso che il regista ungherese fa della storia di Simenon è davvero peculiare e in qualche modo ripetitivo di un'idea di cinema che chi ha imparato a conoscere Tarr sa riconoscere fin dai primi cinque minuti di pellicola. Maloin vive una vita semplice, senza scopi, in riva ad un mare imprecisato. Il suo lavoro è quello di azionare leve e controllare le luci del faro della banchina del porto. All'improvviso la sua anonima esistenza viene scossa dall'aver assistito ad un omicidio e dal ritrovamento di un valigia piena di sterline. Privato di un contesto ambientale riconoscibile ed immerso in uno spazio cinematografico idealtipico (il porto, la costa, la banchina sono una soltanto, ma sembrano il risultato di almeno tre città diverse), The man from London è pellicola basata su una precisa ricerca di straniamento e inanità dell'esistenza del protagonista ottenuti grazie ad un ermetismo formale fatto solo di piani sequenza prolungati (ne abbiamo contati venticinque), di bui ed ombre di un datato bianco e nero, di un recitazione meccanica e marziale. Ne esce statuario il personaggio di Maloin (Miroslav Krobot) immerso in notturne inquietudini, nel dirimere "doppie" questioni familiari, contornato da silenzi o da rumori reiterati. Poi l'ingranaggio del giallo, con vittime, colpevole e refurtiva, sbuca lo stesso, ma la strada per arrivarci è stata davvero intricata.