Prendere o lasciare. Tagliare per sopravvivere. Gaby (Moshe Ivgy), volto segnato da un'esistenza difficile, accetta l'unico lavoro che l'ufficio di collocamento ha da offrirgli: staccare l'acqua per conto della società idrica a chi non paga le bollette. Il guadagno è di 11 shekel a taglio, una miseria: soprattutto se paragonata all'infinità di insulti, spintoni, offese che Gaby è costretto a subire. La sua speranza è il figlio Boaz (Tom Yefet), portiere in una squadra di calcio locale, ma le cose si complicheranno quando Gaby dovrà tagliare l'acqua al padre di un compagno del ragazzo.
Camera fissa e moto dell'animo: l'israeliano Idan Hubel costruisce in 76' l'apologo del capro espiatorio, l'uomo piccolo contro cui scagliare la rabbia e le frustrazioni, l'ingranaggio (suo malgrado) di un sistema che toglie nel momento in cui smettiamo di dare in cambio. E' un piccolo capolavoro The Cutoff Man (opera prima che forse meritava il Concorso), perché capace di coniugare forma e contenuto (la sintesi più alta è verso la fine, quando il protagonista e altre persone in un bar si girano verso la macchina da presa che li inquadra al di qua del vetro e scopriamo solo poco dopo che stanno guardando la moglie di Gaby, arrivata lì per riprendersi il marito), estetica ed etica: il film deve molto anche al suo interprete principale, Moshe Ivgy, incredibile nel riuscire a trasmettere solo con il corpo, con gli occhi, la scissione interna causata da un disagio con cui è impossibile, per lo spettatore, non empatizzare.
"Mors tua vita mea", è vero, ma non per tutti è facile come bere un bicchier d'acqua: e la grandezza di Cutoff Man è quella di concentrarsi sì sul personaggio di Gaby, senza tralasciare di ricordarci però che noi, la stragrande maggioranza, siamo gli altri. Quelli che, dal di fuori, ne comprendono perfettamente le ragioni. Basta non venga poi a tagliarci l'acqua.