Le sequenze in cui il piccolo truffatore Ferdinando Esposito, interpretato da Totò, viene avventurosamente inseguito da Aldo Fabrizi nelle vesti del brigadiere Lorenzo Bottoni nei primi segmenti di Guardie e ladri (1951) rappresentano solo uno degli innumerevoli esempi della geniale comicità italica degli anni Cinquanta. Tra l’inciampare nelle balle di fieno e galline strepitanti, il duo si rincorre nella spassosa e nostrana “caccia al ladro”.

Ecco, con questa semplice successione di gag si può circoscrivere la brillantezza comica di un gigante del cinema nazione quale è stato Steno, protagonista del documentario omonimo diretto da Raffaele Rago e presentato nella sezione Freestyle della Festa del Cinema di Roma. I ricordi privati si intrecciano alle curiosità cinematografiche, raccontate da chi con lui ha lavorato e da chi lo ha amato e stimato, Steno in poco più di un’ora tratteggia il ritratto dell’autore facendo intersecare la produzione artistica con la dimensione personale, nell’inevitabile binomio vita-carriera.

Uomo di antica cortesia e gentilezza, Steno, pseudonimo di Stefano Vanzina, è descritto come “d’altri tempi”, un Howard Hawks di piccola statura, esile, ma con una grande autorevolezza spesso solo esibita per avvalorare il proprio ruolo: “il regista ogni tanto deve strillare”, diceva. Una finezza e una classe, suffragate dall’eleganza mostrata nel ben vestire, che non escludono in alcun modo l’ironia.

La comicità, di cui si è fatto mirabile portavoce ed artigiano, in effetti è quel tipo di umorismo composto, comprensibile nei meccanismi, finemente allusivo e garbato; aggettivo, quest’ultimo, perfettamente in linea con la personalità di Steno. Fumettista nella redazione del Marc’Aurelio, apripista per noti cineasti e sceneggiatori, Vanzina venne iniziato alla regia da Mario Mattoli che lo volle come assistente per Imputato, alzatevi! (1939). Dopo una corposa gavetta, sarà il prolifico sodalizio con Monicelli a porre le basi per la definizione della sua cifra stilistica individuale. Dall’unione professionale, la superlativa collaborazione con il Principe della risata: Totò e i re di Roma (1951), Totò e le donne (1952) e il primo film a colori italiano Totò a colori (1952).

Da quel momento in poi un’ascesa inarrestabile con un grande numero di pellicole al suo attivo, tra cui l’indimenticabile dittico Un giorno in pretura (1953) e Un americano a Roma (1954) con Alberto Sordi, di cui prematuramente notò le abilità farsesche. Una serie di successi commerciali e critici che contribuirono a decretarlo, nella forma e nel contenuto, uno dei capisaldi della commedia italiana.

Tra i cult assoluti Febbre da cavallo (1976) in cui riuscì a dare origine ad espressioni comunemente (e ancora) utilizzate tra le quali “mandrakata”, quintessenza di quell’arte di arrangiarsi tipicamente italiana. Steno divenne pertanto marchio, garanzia di un cineasta ordinato, attento, con idee ben chiare, senza velleità visionarie o istrionici progetti, bensì sceneggiature lineari e argute che videro nella cooperazione con talentuosi attori e attrici amati dal grande pubblico, assicurazione di ottima riuscita.

Abbracciando generi diversi, dal poliziesco al puramente comico, il regista tradusse su pellicola il desiderio mai sopito di fare cinema per il gusto di farlo anche se “un giorno non saprai dove mettere la cinepresa”. Ad essere sempre presente, diventando carattere distintivo, lo humor dissacrante e mordace, fondamentale per fotografare con sguardo consapevole l’Italia nel momento di maggiore transizione, perché, come sempre avviene, la settima arte è testimone attivo dei cambiamenti sociali e culturali.

Basti pensare al repentino passaggio dall’estetica neorealista a quella che sarà il genere di punta della nostra stagione più fiorente, ovvero la commedia. Egli riuscì con intelligenza a carpire i mutamenti, i gusti adeguandoli a una comicità in costante evoluzione: dalla simil slapstick comedy di Totò, alla fisicità “a mani nude” di Bud Spencer fino all’irruenza dialettale di Abatantuono. Una lettura della contemporaneità critica ed acuta sostenuta da una cultura a tutto tondo.

Non solo cinema, ma pittura, danza, musica e soprattutto letteratura. Steno con il pregevole intento di omaggiare un personaggio, un po' troppo dimenticato rispetto ai suoi coetanei, si configura come una conversazione, capitanata dal figlio Enrico, tenera, divertente e amabile tra amici e familiari. Un documento prezioso senza essere didascalico per conoscere il regista che “va a girare sempre in giacca e cravatta”.