I fan di James Bond ricorderanno a lungo questa festa di compleanno. Difficile immaginare un cerimoniere migliore di Sam Mendes e un tributo più azzeccato di quello orchestrato da Skyfall per i primi 50 anni di servizio dell'agente segreto più cool della storia. All'inizio fu 007 - Licenza di uccidere (1962) e Sean Connery: l'attore scozzese ne avrebbe fatti sei in dieci anni (l'ultimo: Una cascata di diamanti, è del '71), concedendosi una pausa solo nel '69 (Agente 007 - Al servizio segreto di sua maestà) quando il personaggio venne affidato al dimenticato George Lazenby. Poi vennero i James Bond di Roger Moore (sei film anche per lui, da Vivi e lascia morire del 1973 fino a Bersaglio mobile del 1985), di Timothy Dalton (una doppietta: Zona pericolo e Vendetta privata), di Pierce Brosnan (quattro titoli: debutto con Goldeneye nel '95 e congedo ne La morte può attendere del 2002) e di Daniel Craig, l'ultimo Bond della serie, al centro di una trilogia iniziata con Casino Royale, proseguita con Quantum of Solace e conclusa - crediamo - con Skyfall. Quello che verrà - si parla già del primo 007 nero della storia, papabile Idris Elba, anche se Craig ha un contratto per altri due film - verrà.
Questo è il tempo dei saluti, dei ricordi, di tirare una riga per vedere, un'ultima volta ancora, che cosa ci lasceremo alle spalle. Fa breccia la nostalgia, inevitabile. Già dalla splendida clip che precede la nuova esegesi del vecchio 007, un frullato sonoro di incarnazioni bondiane, gesta spericolate, amanti mozzafiato e gadget mitici. L'intera epopea in cinque minuti, poi si inizia sul serio.
L'incipit di Skyfall è in assoluto tra i più belli e pirotecnici della saga: Bond emerge letteralmente dal regno delle ombre per catapultarsi immediatamente nel cuore dell'azione. Caricatori pronti, femmina al fianco (Naomie Harris), nemico in fuga: inseguito per tetti e per treni, in moto e a piedi e persino a bordo di una gru. Siamo in Turchia, Istanbul; entriamo in medias res, alla maniera del jazz, ritmo del diavolo. E Bond muore. Come e con un proiettile viene scaraventato in acqua. Inghiottito. Titoli di testa. Il tema? La fine con le sue modulazioni di frequenza oniriche. Le immagini? Sfacciatamente cromatiche e retrò, cartoonate e molto anni '70, sono di Daniel Klinman. La canzone è Skyfall, la voce è morbida, sensuale, Adele.
Si ricomincia. Londra è fumosa, M (Judi Dench) è grigia, il contesto che più cupo non potrebbe. Il capo dell'MI6 sta scrivendo il necrologio del suo agente preferito, la politica vuole riformare i servizi e ha messo un mastino del calibro di Ralph Fiennes a fargli le pulci, mentre la copertura dei suoi operativi viene messa in pericolo dall'attacco criminale di qualcuno che è entrato in possesso della lista degli agenti britannici in missione nel mondo. Troppo perché 007, nel frattempo resuscitato chissà come, non torni in azione. Anche perché al centro del mirino stavolta c'è la sua adorata papessa, M medesima. Qualcuno vuole fargliela pagare per uno sgarro antico. Qualcuno un tempo a lei caro. Il villain è Javier Bardem, lo sanno tutti. Ed è fuori di testa come il Joker di Heath Ledger, lo stesso parrucchiere. Tra lui e Bond il conflitto è d'astuzia, di equipaggiamento (antico e moderno quello bondiano), edipico probabilmente. E qui il caro vecchio Mendes ci ha messo lo zampino. Ma è solo uno dei tanti sottotesti possibili.
La sceneggiatura di Neal Purvis, Robert Wade e John Logan è strutturata a vasi comunicanti, teorizza passaggi e passaggi (segreti ovviamente), muovendosi da una traccia a un'altra, da un quesito a un altro, da un problema a un altro, e tutto deve tornare. La regia di Mendes e la sua eccezionale squadra di collaboratori - dal direttore della fotografia Roger Deakins allo scenografo Dennis Gassner, dal montatore Stuart Baird al regista della seconda unità Alexander Witt - la rende materia viva. Tutto ruota attorno al passato, terra straniera per alcuni, terra di conquista per altri. Il passato di M e quello di Bond, lo spionaggio di una volta e la memoria di una saga che qualcuno vorrebbe mandare in pensione, inutilmente. Ma non ci sono cesure nette, non sono possibili. Al limite trasformazioni, eredità su cui lavorare dentro un'evoluzione sostenibile. Mendes miscela con sapienza il vecchio e il nuovo, disegna un inedito Bond (che è il più fragile e fallibile dell'intera serie) riconnettendolo all'antico (e ai suoi Martini, alle sue Aston Martin, ai suoi orologi). Bisogna voltarsi indietro per potere andare avanti, sembra questa la morale. Proiettato verso il futuro ma rivolto ancora al passato, l'ultimo Bond è come l'Angelus Novus di Benjiamin: eroe nel tempo e fuori dal tempo. Mutante ed eterno. Qualcuno di cui non si può fare a meno, il tipo rassicurante, che la sfanga sempre, pure quando le cose si mettono decisamente male.
Finché c'è Bond c'è speranza, senza che per questo 007 voglia essere preso sul serio: "Il mio hobby è la risurrezione", dice lui e il film gli dà ragione, ogni volta. Possono esplodere metropolitane, bruciare case, precipitare elicotteri: lui non muore. Skyfall è una continua variazione sul tema "ce la farà?", una narrazione che scalcia di continuo verso la catastrofe, il limite, la fine. Per esorcizzarli ogni volta. D'altra parte non si può uccidere un'ombra (così M definisce i suoi uomini). La si può solo guardare e guardare e guardare. Ed è quello che fa e ci fa fare Mendes attraverso una messa in scena liquida, prismatica, a specchi. Così sofisticata da suscitare ammirazione gelida. Per spettacolarità, architettura del disastro e dispendio tecnico Skyfall è il punto di non ritorno non solo della saga, ma anche dell'action. Difficile fare più di così. Domani potrà essere solo diverso.