Mettete una situazione tipo Indovina chi viene a cena in un interno surreal-distopico alla Fabbrica delle mogli e otterrete l’architettura ideologica e narrativa di Get Out, riuscitissimo film d’esordio dell’attore e sceneggiatore afroamericano Jordan Peele ed ennesima scommessa vinta - 160 milioni di dollari incassati in patria a fronte dei 4 e mezzo di budget: record per un’opera originale scritta da un debuttante - da Jason Blum che, dopo la trilogia delle Notti del giudizio, punta ancora sullo scenario politicamente allettante ed economicamente fecondo del nuovo ipotetico fascismo americano.

Dai conflitti di classe e dalle tensioni sociali passiamo a quelli etnici e razziali, sullo sfondo della fine dell’era Obama e l’inizio del regno di Trump.

Il plot è semplice, quasi elementare: la bella Rose, bianca come la candeggina (Allison Williams), convince il fidanzato di colore Chris (Daniel Kaluuya) a passare il fine settimana dai suoi, per farli conoscere. Sia pure riluttante e scoraggiato dall’amico Rod (lo spassoso Lil Rel Howery), il ragazzo accetta. Ma una volta giunto a destinazione non ci metterà troppo a capire di aver fatto la scelta sbagliata.

Sostenuto dallo score ipnotico di Michael Abels e dalle ispirate performance attoriali (letteralmente malefici Catherine Keener e Caleb Landry Jones), Get Out presenta il tipico corredo genetico di un vecchio paranoid film dei ’70 (teorie sulla razza, società massoniche, ipnosi e brainwashing) iniettandolo in un robusto film di genere, capace di combinare felicemente atmosfere perturbanti, trovate horror, punzecchiature politiche e graditi momenti di ilarità.

Il passatempo è assicurato, la paura ben centellinata eppure il film disturba a un livello più profondo. Soprattutto inqueta che nell’America del 2017, negli stessi luoghi della vergogna razziale di allora (Get Out è stato girato simbolicamente in Alabama) sia concepibile oggi un ritorno di fiamma della blaxploitation, tanto a livello produttivo quanto commerciale. Benvenuti nel futuro.