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L'opera del regista tedesco Pepe Danquart è, né più né meno, un'odissea della solitudine, una picaresca meditazione sul tema dell'infanzia violata e sulla negatività della Storia. Di film sulla Shoah la cinematografia mondiale è puntualmente prodiga ogni anno, ma quest'ultimo, tratto dal bestseller di Uri Orlev, si differenzia dalla restante parte per diverse ragioni.
La storia di Srulik (Andrzej e Kamil Tkacz), un orfano ebreo sfuggito ai rastrellamenti del ghetto di Varsavia, è la storia dei suoi vagabondaggi e della sua lotta disperata per la vita. Costretto a fingersi polacco pur di sfuggire alle SS, Srulik vaga per una Polonia invasa che non è la classica landa di macerie cui siamo stati abituati; Danquart ci pone invece dinanzi una terra verdeggiante e florida, dove le fattorie si susseguono alle foreste e ai fiumi e dove le città oppresse dalla guerra sembrano poter riaffiorare soltanto negli incubi del bambino in fuga. Il tono della narrazione, tuttavia, non è fiabesco né surreale: la violenza della sopraffazione, la miseria delle condizioni in cui Srulik e altri bambini fuggiaschi come lui si trascinano, la carne (degli animali) e il corpo (umano) sono mostrati chiaramente nella rispettiva evidenza, nella macerazione.
Se dunque la natura paradisiaca fa da sfondo a una realtà civilizzata resa marcescente e orribile dalla guerra, l'altro tema portante del film è senza dubbio quello dell'incontro con l'Altro. Gli uomini e le donne in cui Srulik s'imbatte nel suo peregrinare rappresentano un esaustivo campionario di umanità: chi lo vende per una ricompensa, chi lo umilia o ignora e persino chi è disposto a tutto pur di aiutarlo a salvarsi. Per questo bimbo, umiliato e offeso dalla Storia, la relazione con l'Altro (e in questo Altro troviamo il versante spirituale simboleggiato dalla religione cristiana) rappresenta forse l'unico modo di imprimere un segno del proprio passaggio in un mondo altrimenti inattingibile e assurdo.
Infine, l'innegabile fluidità dello stile di Danquart, la sua padronanza del mezzo tecnico, è forse soltanto lievemente intaccata da un finale troppo “tradizionale” che rovescia, nella sua ansia di pacificazione, una struttura filmica solida e, soprattutto, originale.