In che modo, dopo Gomorra, Matteo Garrone avrebbe potuto realizzare un film più agghiacciante? Per capirlo, la risposta è Reality: Napoli, oggi, Luciano (Aniello Arena) è un pescivendolo sposato con tre figli. Vocazione per lo spettacolo (ai matrimoni sono celebri i suoi travestimenti), è attorniato da familiari e parenti che lo spronano al "salto" che può cambiargli la vita. Soprattutto per far contenti i figli, Luciano raggiunge un centro commerciale dove si stanno tenendo i provini preliminari per il Grande Fratello. Passa qualche giorno, poi la chiamata: con moglie e bambini raggiunge Cinecittà e dopo un'ora di colloquio con gli organizzatori del programma, la certezza: "Li ho scioccati Marì!", dice trionfante alla moglie (Loredana Simioli). Torna al quartiere da eroe, acclamato quasi quanto il beniamino dell'edizione precedente, Enzo (Raffaele Ferrante), vera e propria star osannata nei locali e invitato ai matrimoni perché artefice di un'impresa "sensazionale", rimanendo ben 116 giorni nella casa.
La vita di Luciano è cambiata, inutile negarlo, non resta che attendere la telefonata definitiva: ma l'attesa si trasforma in ossessione, ogni persona, ogni gesto, viene misurato in funzione di un ipotetico controllo che la produzione sta effettuando su di lui. Luciano è diventato protagonista di un Reality che invece non è mai iniziato, ma che la sua testa non vuole più abbandonare.
Dalle musiche di Desplat alla trasfigurazione fiabesca di una misera realtà, dalla prospettiva felliniana e insieme debitrice dello sguardo di maestri come Germi e Risi, Eduardo e De Sica, dall'inesausta ricerca di un tono insieme favolistico e tragico all'enorme lavoro sulla direzione degli attori, ogni cosa in Reality riporta alla mente i momenti della più alta commedia all'italiana. Garrone si affida nuovamente ad attori semisconosciuti (Claudia Gerini ha una sola posa, come conduttrice del programma tv) e torna nel napoletano, terra popolata da maschere che riescono a farsi personaggio con una smorfia, una battuta, terra che - a detta dello stesso regista - ospitò un caso simile a quello raccontato nel film. Che si apre con un pianosequenza aereo e relativo "zoom in" su una carrozza diretta ad uno sfarzoso matrimonio e si chiude con uno "zoom out" ascensionale sul protagonista disteso e ridente nel giardino della "casa": in mezzo, il racconto di un sogno che porterà inevitabilmente alla follia, disarmante specchio di un paese alla deriva. Rappresentato dal regista romano e dai suoi collaboratori (i co-sceneggiatori Braucci, Chiti e Gaudioso, il direttore della fotografia Marco Onorato) con la consueta volontà di "ricreare" il vero attraverso un filtro - siano i dialoghi o il palese lavoro sui colori - che non distorca ma che tantomeno soffochi: l'arma in più, in tal senso, è la straordinaria prova di Aniello Arena - attore detenuto della Compagnia della Fortezza del carcere di Volterra - capace di costruire il proprio personaggio operando su più livelli, senza mai abbandonare quell'impeto genuino che accompagna Luciano dalla prima all'ultima sequenza del film.