Tiene mezz'ora il film di Cristina Comencini, poi si squaglia. Mezz'ora in cui la regista di Quando la notte riesce a disfarsi del suo romanzo per scrivere col cinema: non narra, crea un'atmosfera; lascia che a fluire sia il tempo, non la storia; coglie i dettagli, i rintocchi delle ore, la vita trattenuta in una stanza, congelata nei primi piani. La espone ai totali di una natura ruvida, imperturbabile, smisurata. La montagna. Coglie il rumore di fondo delle immagini, la loro disponibilità perché qualcosa di sconsiderato, di terribile, accada.
Per mezz'ora Quando la notte è un thriller: c'è uno chalet isolato, una madre coi nervi a fior di pelle, un figlio che piange e piange; c'è l'inquilino del piano di sotto, fascinoso, sospettoso, taciturno. C'è la memoria del pubblico, infettata dai fatti di cronaca, proiettata su Cogne. C'è qualcosa nell'aria, e accade. Nel film, al film.
Magagne vengono fuori, tutte in una volta. Si passa: dall'angoscia di due solitudini che si sfiorano allo scontato adagio degli amanti; dall'orrore di una maternità che logora al divampare di una passione che infiamma; dal cinema di corpi e di sguardi, di sensazioni e non detti, al solito cinema italiano pretenzioso e fasullo, ricamato e ridicolo. L'economia del dettaglio diventa sperpero simbolico, volgare, ruffiano: non manca nemmeno lo sliding doors di due funivie che s'incrociano. I dialoghi hanno l'alito rosa della letteratura, la musica gira come gli pare, le facce minacciano eterna sofferenza, la storia si affloscia, va in analisi, ci manda fuori dai gangheri. Persino la Pandolfi e Timi sembrano diversi, peggiori. Nel momento in cui i due protagonisti salgono su - al rifugio - il film invece precipita. Come se nel tentativo ambizioso di traghettarlo dal thriller al mélò, la Comencini fosse inciampata involontariamente nella commedia. Atterrando su un campo di risate.