Siamo arrivati all'ultimo capitolo della trilogia di Ulrich Seidl, Paradise. Love, Faith, Hope: molto più di una provocazione, la declinazione personale di fede, speranza e carità. A Cannes, in concorso, il primo dei tre, Love: Teresa (bravissima Margarete Tiesel), cinquant'anni e problemi di peso, di mestiere assistente agli handicappati, si concede una vacanza. Molla la figlia a casa di un'amica (una fanatica religiosa, altra grande interpretazione) e parte per un'avventura esotica in Kenya. Il sogno di libertà, trasgressione, bisogno d'amore si trasforma in un incubo raccapricciante.
L'amica bigotta (Maria Hofstätter) è la protagonista del secondo capitolo: Faith (Premio Speciale della Giuria a Venezia 69). Anche qui il regista austriaco non scherza: la 50enne Anna Maria è convinta di essere predestinata a portare la croce, quindi per far ritrovare all'Austria la via della virtù, spende le sue vacanze nelle missioni religiose, munita di una piccola statua della Madonna, bussando porta a porta. Ma nei confronti del marito (musulmano) semi-paralizzato non mostra la stessa devozione, anzi.
Nel terzo, in concorso alla 63° Berlinale, è la figlia (Melanie Lenz) tredicenne, con troppa ciccia addosso a incarnare "la speranza". Stavolta la location è un collegio per bambini obesi, tra le montagne austriache. Con le stesse regole di un carcere: niente cellulare, ginnastica forzata, un'ora di libertà al giorno, ecc ecc. Come la madre, la bionda Melanie sogna di emanciparsi, di uscire di nascosto con l'amichetta di turno, di ballare con i ragazzi. E di innamorarsi: l'unico che ha contatti con lei, e con le altre, è il medico e il direttore del campo. I 30 anni in più non lo rendono impermeabile alle sottili astuzie della ragazzina, ai tentativi continui di seduzione. Ma è un amore che non può durare. Anche qui Seidl segue i suoi attori impassibile, senza nessuna concessione ai sentimenti o all'enfasi. Dei tre sembra il meno crudele. Forse, si interroga il regista, per qualcuno c'è ancora speranza?