Tra tanti cinefumetti, kolossal e disaster-movie che scampanellano in sala, Pacific Rim è quello che meglio risponde a un'idea di blockbuster estivo. Evasione pura, fracassona, visivamente polposa, non per forza scema ma nemmeno intellettualmente proibitiva (tutt'altro), l'ultimo lavoro di Guillermo del Toro è tra i più leggeri della sua filmografia. Persino trascurabile sotto il profilo dell'originalità poetica e della consistenza narrativa.
Il che va a tutto vantaggio dell'action no-stop, di un tambureggiante assolo vandalico capace di distruggere tutto ciò che gli si para davanti - ponti, edifici, muraglie - nell'estasi metallica di una lotta belluina e incruenta, dei mazinga contro godzilla.
Del Toro assimila b-movie e fantascienza di matrice nipponica un po' per devozione e un po' per tornaconto, dovendo vendere questo gigante da $ 200 milioni nei mercati asiatici ( la partecipazione all'impresa di attori orientali serve anche a questo).
La sceneggiatura, scritta a quattro mani da Del Toro e Travis Beacham, attinge copiosamente (e segretamente) dalla saga di Evangelion, cult d'animazione della metà dei '90, ideato e diretto da Hideaki Anno. Siamo nel 2020 e da molti anni il genere umano è in guerra contro i kaiju, enormi dinosauri alieni che provengono da un portale intergalattico nascosto negli abissi del Pacifico. Non tutto il male vien per nuocere visto che, per fronteggiare la minaccia, i potenti della terra son costretti ad allearsi e a costituire la Pan Pacific Defense Corps (ne fanno parte in realtà solo USA, Cina, Giappone, Russia e Gran Bretagna, ma questa è un'altra storia). Il frutto di tale sospetta alleanza è un impasto di avanguardia tecnologica e apogeo militare, ovvero giganteschi robot - chiamati jaeger (parola tedesca che significa "cacciatori") - internamente manovrati da una coppia di piloti interconnessi a livello neuronale: è il fenomeno del "drift", che oltre a determinare suggestive simbiosi psico-fisiche, rischia di generare tra le due parti in gioco pericolosi scambi sull'asse mnemonico dei traumi. I due principali eroi di quest'impresa, il valoroso Raleigh (Charlie Hunnam) e la fragilissima Mako (Rinko Kikuchi), ne sanno qualcosa. In una delle scene à la Del Toro, Mako rischia di mandare a gambe all'aria una missione solo per aver rievocato durante il drift un episodio angoscioso del passato, quando da bambina si era trovata faccia a faccia con un Kaiju in una città giapponese ridotta in polvere. Torna in mente un'analoga disavventura capitata alla giovane protagonista del Labirinto del fauno, ma a differenza di altri film del regista messicano qui la componente psichica è puramente decorativa, interessando primariamente a Del Toro il visual look e le coreografie.
Un approccio gargantuesco che combina con maestria pezzi di mitologia sci-fi, modernariato e vecchio cuore analogico, quanto basta insomma per evitargli ogni improprio paragone con i vari Bay ed Emmerich. Da cui lo distingue anche un po' di sana ironia (vedi la coppia iperattiva di scienziati e il trafficante di organi Kaiju Ron Perlman) e un'ossessione per il dettaglio da pittore. Nonostante il gigantismo figurativo e la fotografia fortemente contrastata di Guillermo Navarro (pure oscurata dal velo d'ombra del 3D), il contenuto dell'immagine resta intelligibile e il movimento non risulta mai ingolfato. Peccato che l'emozione latiti e l'onnipresente colonna sonora di Ramin Djawadi costringa gli attori - Idris Elba in testa - a urlare le proprie battute, portando all'isteria una visione già di suo roboante.