In una grigia e fredda Bruxelles si incontrano Orlando (un Michele Placido superlativo) e la dodicenne Lyse (l’esordiente e brava Angelica Kazankova). Non si erano mai conosciuti, improvvisamente si scoprono nonno e nipote dopo un tragico evento, la prematura morte del rispettivo figlio e padre.

Orlando, un reatino (“non so ciociaro, so sabino”) di settantacinque anni, un contadino, con solamente la quinta elementare alle spalle e i soldi cuciti nella giacca, che tiene la terra e le bestie. Taciturno, dallo sguardo malinconico e poco avvezzo alle domande, è uno che parla solo quando tiene qualcosa da dire e che catapultato in quella città metropolitana vorrebbe tornare quanto prima al suo paese perché: non vuole “crepà a 3000 chilometri di distanza”. Dall’altra parte Lyse, una dodicenne belga, dai lunghi capelli biondi e amante della scuola, è una che fa domande e (giustamente) pretende anche le risposte.

Presentato fuori concorso al 40° TFF (Torino Film Festival) e ora in sala con Europictures, il nuovo film di Daniele Vicari, scritto dallo stesso regista con Andrea Cedrola, è una commovente favola moderna che racconta l’incontro tra due mondi lontani, ma al tempo stesso vicinissimi. A tenerli uniti più che mai non solo la perdita di una persona cara a entrambi, ma soprattutto le rispettive solitudini.

Angelica Kazankova e Michele Placido in Orlando (credits: Dominique Houcmant e Jean François Ravagnan)
Angelica Kazankova e Michele Placido in Orlando (credits: Dominique Houcmant e Jean François Ravagnan)
Angelica Kazankova e Michele Placido in Orlando (credits: Dominique Houcmant e Jean François Ravagnan)

Dopo aver diretto film di denuncia (come Diaz), Vicari ci porta sullo schermo le emozioni umane in un film scandito dai silenzi, dalle mancanze e dalle comuni eredità (le melanzane ripiene con il pecorino tramandate di generazione in generazione), che in qualche modo ricorda l’ultimo lungometraggio di Roberto Faenza Hill of Vision (sebbene quella era un’incredibile storia vera dai toni fiabeschi).

Di vero qui non c’è niente, ma questa storia dall’impianto tradizionale, condita di piccoli gesti, come preparare la macchina del caffè o buttare una sigaretta senza filtro, nonché di scambi non verbali (il pattinaggio da un lato, il clarinetto dall’altra), con protagonista un coriaceo contadino che vive nel passato ed è costretto a confrontarsi con il futuro, riesce a toccarci profondamente. E il finale è superlativo.