Cambiare il corso degli eventi attraverso il cinema. È ormai divenuta una costante nella filmografia di Quentin Tarantino, che il 21 maggio 1994 presentava a Cannes Pulp Fiction (poi Palma d'Oro) e oggi, esattamente 25 anni dopo, ritorna in concorso sulla Croisette con il suo nuovo lavoro, Once Upon a Time in Hollywood che, guarda caso, è ambientato esattamente 50 anni fa.

Siamo a Los Angeles, nel febbraio del 1969. L'attore televisivo Rick Dalton (Leonardo DiCaprio) e la sua storica controfigura Cliff Booth (Brad Pitt) cercano di farsi strada in una Hollywood che ormai non riconoscono più. A Cielo Drive, la strada privata dove vive Dalton, da qualche giorno Roman Polanski e la sua nuova compagna Sharon Tate (Margot Robbie) hanno preso in affitto una villa, adiacente all’abitazione dell’attore.

Cinema e metacinema. Mai come stavolta il regista di Jackie Brown e Bastardi senza gloria gioca a carte scoperte, separa chirurgicamente il film in due momenti cruciali della narrazione (l’8 e il 9 febbraio la prima parte, l’8 e il 9 agosto la seconda), segue i suoi due protagonisti (e mezzo) in un continuo gioco di immersioni, dentro e fuori il set, e di rimandi, con flashback che arrivano quando meno te lo aspetti, per ragionare come forse mai fatto prima sulla natura stessa dell’essere attore.

Certo, è aiutato e non poco dalla performance spaventosa di un Di Caprio che forse solamente in The Wolf of Wall Street riuscì a mutare registri in modo così impensabile, con Brad Pitt perfetto nel suo ruolo ombra volutamente più trattenuto e sornione, ma con improvvisi cambi di tono da fuoriclasse di razza.

Non mantiene sempre la stessa potenza e il film sembra leggermente squilibrato perché, e questo è un (micro)difetto che forse l’ha sempre contraddistinto, dilata fino allo sfinimento alcune situazioni che potevano essere abbandonate con più agilità, ma è lampante la voglia di Tarantino di esaltare – anche nelle loro tare evidenti – i suoi due personaggi, colleghi da parecchio ma anche amici nella vita “reale”.

Arriva persino ad autocitarsi platealmente (durante le riprese del nuovo western con Rick Dalton nei panni del villain, con il momento topico in cui sembra di rivederlo in Django Unchained) e regala un momento di dolcissimo autocompiacimento a Sharon Tate quando, con lo stesso incanto di una bambina, si ritrova in sala – con le piante dei piedi annerite poggiate sulla poltrona antistante – a riammirarsi in The Wrecking Crew (da noi era Missione compiuta stop. Bacioni Matt Helm), al fianco di Dean Martin.

Naturalmente, poi, sullo sfondo ecco affiorare i fucking hippies della Manson Family, che il regista di Knoxville introduce nella sua storia poco per volta, fino alla sequenza ricca di tensione allo Spahn Movie Ranch, landa californiana dove la comune alloggiava.

Locandine, cartelloni, neon e drive in, Tarantino sembra aver davvero girato il film dei suoi sogni, con tanto di sortita – solamente accennata dalla voice over e da qualche veloce “spezzone” – nella tanto amata cinematografia nostrana di quegli anni, con Dalton impegnato in film “immaginari” tipo Nebraska Jim di Sergio Corbucci poi Operazione Dyn-o-mite o Uccidimi subito Ringo, disse il Gringo.

Film dei suoi sogni che non poteva risolversi se non a modo suo. Perché quando il cinema incontra il metacinema di Tarantino, la Storia prende sempre altre strade. Se n’è accorto anche un certo Adolf Hitler.