Bisogna risalire molto indietro nei decenni per trovare un altro film italiano capace di coniugare, in maniera altrettanto compiuta ed esteticamente convincente, l'efficacia della ricostruzione storica, la lucidità nel ribaltare i cliché che hanno accompagnato la nostra formazione civile e sociale, la piena e a tratti persino sorprendente capacità di condurre un discorso sul passato che si riverbera e riflette nel nostro presente, la felicissima intuizione creativa che consente a Martone di coniugare una narrazione di rara potenza espressiva con una direzione di attori che ha del miracoloso.

Spieghiamoci meglio. Il terreno era minato, l'insidia dietro l'angolo. I film di ambientazione storica sono spesso poco credibili, si confrontano con problemi di verosimiglianza e autenticità quasi irrisolvibili. Pochi registi (Rossellini, Visconti, Rohmer...) avevano dato l'impressione di aver trovato la chiave di un segreto, se non gelosamente custodito di certo non facilmente trasmissibile. L'Italia di Martone ci appare invece quanto più possibile vicina al Paese che fu nei quattro decenni compresi fra il 1822 e il 1862. O, perlomeno, di come si possa immaginare che fosse, visto che nessuno di noi c'è mai stato veramente. Rendere credibile una ricostruzione, dal punto di vista estetico, però non basta. L'autore di Noi credevamo ha avuto il coraggio di scavare nei sedimenti di una vulgata storica dove l'ideologia, le censure e le rimozioni avevano finito col depositarsi, confondendosi con l'oggettività degli eventi. Rimuovendo la patina degli stereotipi, Martone compie la più radicale, polemica e temeraria rilettura di un periodo decisivo per la storia del nostro Paese. Lo fa con l'ottica di uno storico documentato e insensibile alle lusinghe della pura e semplice celebrazione, trasformando il suo lavoro nel più serio, importante e onesto contributo alle rievocazioni inscenate in occasione del Centocinquantenario. Con la passione civile di chi scopre nel passato i germi della degenerazione del presente, non accontentandosi di guardare all'indietro ma facendo della radiografia storica una straordinaria occasione di riflessione sull'oggi. Con l'emozione dell'artista che, sapendo di mettere in scena il dramma di una generazione che pagò un enorme contributo di dolore e sangue agli ideali del'unificazione del Paese, non esita a farne lo specchio della sua stessa generazione (quella nata e formatasi con gli slanci ideali del '68).