Non sorprende che uno come Giovanni Esposito, commediante navigato e prevalentemente impegnato nel cinema popolare (senza tralasciare la televisione e il mai abbandonato teatro), abbia scelto di esordire alla regia con un film del genere. Perché dentro, oltre, attraverso Nero – che già nel titolo si porta dietro un universo – c’è tutto ciò che la maschera di Esposito ha sempre nascosto in piena vista, dalla malinconia disperata e disperante dei feriti a morte alla capacità di rappresentare il senso stesso di essere un umiliato e offeso dalla vita o quel che resta.

D’altronde nessuno come un comico sa capire e interpretare se non proprio incarnare la tragedia, perché la risata nasce dal dolore, dalla miseria, dalla fame, dalle ombre. Esposito ne ha contezza, perciò Nero è un film che gli somiglia e non solo per questa fatica nell’affiorare dalle macerie emotive ma anche per una sensibilità forse ancestrale – sarà il genius loci? – nel dare concretezza al mistero, trovare sostanza nel magico, penetrare nel mistico.

Oltre a indicarci l’umore e il colore del film, Nero è il nome del protagonista, un piccolo delinquente di mezz’età che si porta addosso più anni di quanti effettivamente abbia, che sopravvive nella microcriminalità per mantenere la sorella, affetta da disturbi mentali. Convinto di aver ucciso un benzinaio nel corso di una rapina, Nero scopre che l’uomo si è incredibilmente risvegliato illeso.

Nella suburbia del litorale campano dove i sogni sono scappati dai cassetti e il futuro è un ingombro da sopportare, la scampata morte viene attribuita alla Madonna dei detersivi, una statua che troneggia nel negozio dell’uomo. E se il miracolo, invece, fosse dovuto proprio a Nero, che toccò il benzinaio dopo lo sparo, donandogli una pronta e inspiegabile guarigione? Tuttavia, nel momento in cui scopre che con la sola imposizione delle mani può salvare persone in fin di vita, Nero si accorge che, a ogni guarigione, perde uno dei cinque sensi: fino a che punto la vita altrui vale più della propria?

Cristina Donadio e Alessandro Haber in Nero
Cristina Donadio e Alessandro Haber in Nero

Cristina Donadio e Alessandro Haber in Nero

Scritto con Francesco Prisco e Valentina Farinaccio, Nero ha le stimmate della parabola religiosa riletta da una prospettiva laica, dove un povero cristo è al centro di un meccanismo che trascende il realismo e convoca il fiabesco, con lo scetticismo che abdica di fronte a qualcosa di incomprensibile (c’entrano, trasversalmente, anche le diagnosi del medico Peppe Lanzetta, che attribuisce ogni sintomo all’ansia), il conflitto tra altruismo inatteso e opportunismo consolidato (l’interesse della camorra), l’amore che prova a imporsi (la fuga pianificata con l’amata e sofferta Anbeta Toromani) e quello che si impone e basta (Susy Del Giudice nel ruolo della sorella).

Fondamentale il concreto contributo visivo di Daniele Ciprì che esalta la miseria di un paesaggio accecato nel grigiore, notevoli le scenografie di Luigi Ferrigno tra mobili scassati e disallineati e incompiuti abbandonati e le apparizioni di Alessandro Haber e Cristina Donadio. Non mancano le ingenuità, le dilatazioni, l’intervento della struggente Felicità di Lucio Dalla a sostenere emotivamente un pezzo già forte, ma Nero è viva e impavida, aspra e misterica, ha intenzioni limpide e gioca d’attacco.