Il monologo interiore è genere ben poco praticato al cinema, per ragioni del tutto evidenti: sentimenti, ricordi, emozioni pertengono alla sfera della parola più che dell'immagine e, dunque, come si potrebbe portare in scena un flusso di coscienza?
Noi sappiamo che il cinema risolve in parte il problema ricorrendo alla voce fuori campo, attraverso cui la parola sonora e non diegetica apre la narrazione all'intimo sentire del narratore e/o dei personaggi. Si tratta in ogni caso di momenti estemporanei, brevi intervalli incastonati nel collage di azioni e situazioni di cui si compone normalmente un film. E anche il cinema espressionista o quello surrealista, per citare due scuole che più di ogni altra si sono poste il problema di come esprimere visivamente i sussulti del mondo invisibile, non sfuggono al dogma della rappresentazione insistendo semmai sul rifiuto del realismo attraverso un lavoro preciso sul profilmico e la messa in scena. La realtà che appare mostruosa evoca la paura, mentre i sogni sono azioni e situazioni che avvengono in un regime di credibilità alterato.
Il caso di Near Death Experience è invece diverso. Qui il realismo non viene rifiutato, semmai viene esasperato con il ricorso a una modalità di ripresa di bassa qualità, sgrammaticata e amatoriale (usata una vecchia videocamera digitale), con vere, false e semi soggettive che accentuano l'impressione di realtà e immergono lo spettatore nel mondo del personaggio. Se l'opera di Gustave Kelvern e Benoit Delepine - in gara in Orizzonti - ha l'ambizione di mostrarci il flusso di coscienza di un aspirante suicida - Paul, un uomo di 56 anni che si sente irrimediabilmente "obsoleto" - il metodo scelto non ha nulla di trascendentale. Si tratta in sostanza di invertire i normali rapporti che in un film si stabiliscono tra voci off e azioni, facendo delle prime il motore della narrazione e delle seconde il contrappunto: l'effetto è straniante il più delle volte, comico e travolgente qua e là. In ogni caso è la parola a condurre il gioco e un cinema di parole resta un ossimoro e uno spettacolo francamente punitivo. Il valore aggiunto di Near Death Experience è dato invece dallo scrittore Michel Houellebecq, in un ruolo che è l'alter-ego di se stesso. E' qui che il progetto acquista ulteriore significazione ponendosi come opera autenticamente trasversale a cinema, musica e letteratura. Un film-saggio in cui il mondo poetico di Houllebecq rimbalza spesso sull'immagine, e in cui la colonna sonora (tra Schubert e Black Sabbath) si inserisce tra i due linguaggi suggerendo nessi sempre nuovi.
Di questa triangolazione espressiva Houellebecq è il vertice e lo sbocco: il suo essere "contro il mondo, contro la vita" abita il film dall'inizio alla fine, con il suo cinismo beffardo, l'ironia disperata, la sgradevolezza ostentata e gli ambienti vuoti, siano case, cieli o vallate. Il romanziere misantropo si rivela autentico corpo cinematografico, grazie al viso sgraziato, allungato e ruvido, la schiena incurvata, il portamento goffo.
In scena praticamente solo lui, a distanza d'imbarazzo. E a voi la scelta: passereste un'ora in mezza con un uomo del genere?