Francesco Totti. Dalla F alla T. Sulla scia dell’apologia mediatica nazional-popolare che ha preso il via dal 28 maggio 2017, giorno in cui il suo addio al calcio giocato ha fatto il giro del mondo, Alex Infascelli (da profano auto-dichiarato) realizza Mi chiamo Francesco Totti.

Documentario che prende le mosse da Un capitano (libro scritto “con” Paolo Condò, edito da Rizzoli nel 2018, dal quale è stata tratta anche la serie Speravo de morì prima, dal 2021 su Sky) e attraverso la voce narrante dello stesso Totti racconta l’uomo, il calciatore, dai primi calci dati ad un pallone (“palla è stata la prima parola che ho detto”) fino allo straziante saluto dell’Olimpico, preceduto dalla notte più difficile, e più lunga, trascorsa dal fuoriclasse, ormai 41enne, dopo 25 anni da professionista con indosso una sola, unica maglia.

Ed è proprio questa simbiosi impareggiabile, antitetica rispetto alle logiche del calcio moderno, che nel corso degli anni ha fatto sì che al romanismo si affiancasse un’altra religione, il “tottismo”.

Mi chiamo Francesco Totti
Mi chiamo Francesco Totti
Mi chiamo Francesco Totti
Mi chiamo Francesco Totti

Figlio di una città alla quale ha regalato moltissimo, ricevendo in cambio un amore assoluto, con derive financo illogiche, Francesco Totti – che spesso sottolinea quanto, sin da giovanissimo, non ha più potuto vivere un’esistenza da persona “normale” (“se devo vedere un monumento 30 secondi e firmare mezz'ora di autografi, che ci vado a fare? Alla fine sono diventato io stesso un monumento”) – ritorna nelle strade dell’infanzia (Via Vetulonia), dove giocando a “paperelle” (uno calciava la palla e doveva colpire tutti gli altri mentre in fila discendevano la scalinata) incominciava a far capire di essere fatto di un’altra pasta, poi sui campi della Fortitudo, della SMIT Trastevere, della Lodigiani (all’epoca terza squadra della capitale, dopo Roma e Lazio, “ma per noi romanisti era la seconda”), fino all’approdo nelle giovanili giallorosse, nel 1989, per poi esordire in prima squadra (a 16 anni) il 28 marzo 1993 sul campo del Brescia.

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Da lì in poi è un continuo alternarsi tra prodezze (uniche, eterne, straviste), momenti di gloria (lo scudetto del 2001, con le conseguenti, infinite feste cittadine, il mondiale del 2006), di dolore (la rottura dei legamenti della caviglia dopo lo scontro con Vanigli in Roma-Empoli, proprio qualche mese prima il campionato del mondo), di gioie private (il rapporto con Ilary Blasi, il matrimonio – con la folla di gente fuori la chiesa, ulteriore specchio di un amore che da incondizionato si era fatto folle – la nascita dei figli), di aneddoti risaputi (“potevo andare al Real Madrid”, “Carlos Bianchi mi voleva cacciare per prendere Jari Litmanen”), di rapporti speciali (con Antonio Cassano, con Vito Scala, suo preparatore atletico personale) e qualche omissis francamente incomprensibile (non una parola, una, su Daniele De Rossi, altro figlio di Roma con cui ha "smezzato" gioie e dolori sportivi dal 2001, condividendone spogliatoio e quotidianità).

Mi chiamo Francesco Totti diventa allora flusso di coscienza auto-narrato, sorta di tema audiovisivo in cui il candidato si sofferma sui momenti cruciali della sua esistenza, con la consueta ironia, senza alcun intervento esterno, senza alcun contraddittorio (vedi l’immancabile frammento sullo Spalletti bis, allenatore che alla prima esperienza romanista – dal 2005 al 2009 – era “amico” di Totti, diventandone poi “nemico” giurato nel 2016-2017, in quella stagione e mezza in cui oltre ad allenare la Roma ebbe l’ingrato – e malriuscito – compito di gestire il fine carriera del campione, comunque 41enne).

Mi chiamo Francesco Totti

Capitolo controverso, quest’ultimo, che causò un paradosso allucinante, possibile forse solamente in una città, e in una tifoseria come quella giallorossa: la Roma (squadra) veniva da un filotto di risultati positivi, all’indomani di un’intervista rilasciata al Tg1, in cui Totti lamentava la scarsa considerazione da parte dell’allenatore, Spalletti decide di non convocarlo per Roma-Palermo. Quella sera, allo Stadio Olimpico, “su consiglio di Ilary”, il giocatore si presenta comunque in tribuna, con la moglie e altre persone. All’annuncio delle formazioni, l’allenatore viene sonoramente fischiato (ghigno soddisfatto di Ilary Blasi sugli spalti), iniziano i cori per Totti.

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Giocatore capace di spostare il sentimento naturale di un’enorme fetta di tifoseria, in grado di anteporlo alle sorti della squadra stessa: la deriva epica e cristologica che il documentario di tanto in tanto imbocca (francamente rivedibili tutti gli inserti "ricostruiti") è allora figlia naturale di un’operazione che – come detto – contribuisce in maniera scientifica a confermare il percorso di un (ex) fuoriclasse che da fenomeno circoscritto “all’interno del GRA” (cavallo di battaglia dei laziali che per una vita hanno tentato di sminuirne la portata calcistica) sta diventando, è diventato, fuoriclasse di (per) tutti.

Ed è per questo che Mi chiamo Francesco Totti piacerà moltissimo a tutti i non appassionati di calcio, a tutti gli appassionati di calcio non romanisti. E a un’enorme fetta di tifoseria giallorossa.

"Sto tempo è passato. Pure pe' voi però".