Valia Santella, classe 1965, aiuto regista al fianco di Capuano e Martone, Corsicato e Moretti, autrice di corti apprezzati in molti festival, ha scelto per l'esordio nella regia un tema complesso quale il rapporto madre-figlia. Sollecitata da Barbagallo e Moretti, ha impiegato molti mesi a definire il soggetto di Te lo leggo negli occhi, sulla cui elaborazione deve aver pesato non poco l'esperienza privata dell'autrice, figlia di una nota attrice della scena napoletana. E non a caso è a Napoli che per la maggior parte si svolge la vicenda che vede al centro la cantante melodica Margherita, da sempre distratta nei confronti del marito e della figlia Chiara, in profonda crisi esistenziale causa dell'avvicinarsi dei sessant'anni. Non che per Chiara la vita sia più semplice, alle prese con una bambina avuta da un compagno ora in attesa di un altro bambino da una nuova fidanzata. I nodi irrisolti sono molti, le ferite profonde e difficilmente rimarginabili. A ricomporre le fratture ci prova Margherita, che nella scena finale canta solo per Chiara "Te lo leggo negli occhi". Tema complesso, si diceva. Un filo sottile sul quale muoversi con doti degne di un equilibrista. Soprattutto se sulla narrazione gettano un'ombra i ricordi personali, per quanto mutati e stemperati da una scrittura condivisa con altri. Una giusta precauzione, quella di creare un diaframma, di oggettivare il più possibile, ma il rischio è di censurare eccessivamente e di mostrare freddezza laddove invece sarebbe utile far uscire sangue e passione. Svelare e non velare, osare e non frenare. Te lo leggo negli occhi difetta invece proprio di lacrime ed emozioni. Un mélo senza dramma. Uno sguardo trattenuto che si riflette sulla regia, dominata da una macchina da presa che non scava mai veramente limitandosi ad accarezzare i protagonisti in interminabili primi piani. L'impressione è quella di un'occasione sprecata, perché sulla carta che una regista donna scegliesse di parlare di un argomento così delicato e squisitamente femminile destava un sincero interesse. Rimosso il desiderio di fare paragoni, resta la nostalgia per le madri raccontate da Almodovar e Sirk, inarrivabili strappalacrime, sublimi cantori dell'universo femminile.