Comunismo, nazismo, ebraismo. Dani Levy è uno che non si fa mancar nulla. Più è politicamente scorretto, scomodo, discusso e discutibile, più è contento. Con Zucker! seppe (meglio del celebrato Goodbye Lenin!) raccontare l'Ostalgie e il Muro di Berlino che divideva corpi, anime, ambizioni, utopie. In quel film persino ebrei ortodossi da non praticanti. In Mein Führer, lui, tedesco d'adozione ed ebreo d'origine, si addentra nel raccontare Adolf Hitler, parodiandolo e spogliandolo del Mito: il tabù supremo. La Guerra è persa, Hitler (Helge Schneider, bravissimo) è impotente, Goebbels vuole mantenere alta l'illusione del Reich invincibile con un discorso di Capodanno vecchia maniera. Serve l'aiuto del grande attore ebreo Adolf Gruenbaum, l'unico che può far risorgere il Führer. Lui è Ulrich Mühe, immenso in Le vite degli altri, attore feticcio di Costa-Gavras recentemente scomparso. Il suo ultimo ruolo, straordinario. Grazie a lui e alla genialità del regista, il nazismo viene ridotto a quel teatro di marionette sanguinarie e vanesie che era.

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