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Renato Carpentieri e Alvia Reale in Sarabanda, regia di Roberto Andò
Che cos’è una relazione, matrimoniale o filiale? Come portare a rappresentazione il ghenos? Domanda antica, naturalmente. Che risale alla tragedia greca, e che il dramma borghese – a partire da Ibsen – ha saputo declinare narrativizzando la forma tragica, inscrivendo al suo interno esplicitamente il tempo, nel quale ciò che di importante viene ad accadere, in un certo senso è già accaduto.
È ciò che abbiamo visto nel recente Sarabanda di Roberto Andò da Ingmar Bergman, dove viene portato in scena con grande originalità ed intensità l’ultimo film del regista svedese del 2003. Film che segue il destino dei personaggi di Scene da un matrimonio, Johan e Marianne, vent’anni dopo. Il senso dell’opera di Bergman si genera dalla sospensione nella quale si ritrovano i quattro personaggi e le loro relazioni, che non si sviluppano mai in una vera storia.
Oltre a Marianne e Johan, coniugi separati che si rivedono dopo più di trent’anni per volontà della donna, abbiamo Henrik, il figlio di lui, e Karin, la figlia di quest’ultimo, legata al padre in un rapporto quasi incestuoso. Il fatto che i personaggi non approdino ad un destino definito – né tragico né commedico – fa emergere l’impossibilità moderna di tale approdo. La struttura al fondo mitica che anima tragedia e commedia qui si disperde, e la forma drammatica del film eccede lo spazio della relazione tra i personaggi.
Questa eccedenza è affidata alla musica, alla Sarabanda del titolo, quella della Suite n. 5 per violoncello di Bach, sulla quale il filosofo Emilio Garroni (Scritti sul cinema, Aragno, Torino 2006, pp. 233-242) ci dice che ci restituisce il “senso” non del tutto dicibile delle relazioni tra i personaggi del film, al di là dei diversi “significati” espliciti che sembrano emergere dai loro dialoghi.


Roberto Andò nella messa in scena teatrale immerge, con una felice intuizione, i quadri bergmaniani nel buio della scena. I campi e i piani che si avvicendano con il movimento di pannelli, si raccolgono nella intensità della scena che prende corpo dal nero, dal quale emergono personaggi, gesti e parole, profilati da meravigliosi tagli di luce. Che cosa significa questo nero? Che cos’è questo nero che contrassegna composizione e ritmica dello spettacolo di Andò? E che trasforma l’ambiente che – per quanto limitato – era comunque presente e riconoscibile nel film di Bergman in una zona di pura intensità espressiva?
Il nero sembra definirsi come quella dimensione simbolica che ci dice che non tutto risiede nei personaggi e nel loro rapporto, quello sofferente tra un padre e una figlia, divenuto ancora più complicato dopo la morte di Anne, moglie di Henrik e madre di Karin; e quello impossibile di due ex coniugi che si rivedono dopo così tanti anni. Quel nero da cui emergono personaggi e parole è ciò che sta tra i personaggi, occupa l’intervallo delle relazioni, definisce di fatto la condizione di radicale solitudine in cui si ritrova ognuno dei quattro; e in definitiva ogni essere umano, a maggior ragione quando è prossimo alla fine (Johan) o è in età avanzata (Henrik e Marianne).
L’unica eccezione è la giovane Karin, morbosamente tenuta a sé dal padre Henrik, da cui si libera solo cambiando il suo progetto di vita. Deciderà di partire con la sua amica, per suonare in una orchestra, senza perseguire il sogno paterno di diventare solista. Henrik proverà a suicidarsi dopo la partenza della figlia. Quel “nero” intensamente espressivo sarà allora ciò in cui si trova isolato drammaticamente ed esistenzialmente ognuno dei personaggi, chiuso in sé stesso, e alle prese con il gesto titanico (quando cercato) di fuoriuscire dal proprio guscio.


Renato Carpentieri e Alvia Reale in Sarabanda, regia di Roberto Andò
(Lia Pasqualino)Ci provano le donne, Marianne all’inizio, raggiungendo Johan nella sua casa nel bosco dove si è ritirato, Karin alla fine, partendo. E soprattutto Anne, presente (in fotografia) e amata da tutti nella sua assenza. Immagine ideale, in cui l’amore sembra inscriversi direttamente nei gesti, senza bisogno di parole. E allora quel nero espressivo, quelle scene e quelle luci meravigliosamente disegnate da Gianni Carluccio, sono l’immagine profonda di un sentimento che eccede i personaggi. Ma non come qualcosa che li sovrasta, ma come qualcosa che ne costituisce lo sfondo, la condizione di apparizione, il sentimento profondo.
Quel nero è in definitiva espressione di un sentimento del tempo, al quale apparteniamo, e nel quale misuriamo il senso fragile e limitato della nostra esistenza. Un tempo come grande coesistenza, dove l’ora e l’allora, i vivi e i morti, le possibilità realizzate e quelle abortite coesistono. Solo in questo senso l’espressività del nero è il contrassegno e la marca stilistica della messa in scena, quella in cui le “persone” bergmaniane (e i bravi attori che danno loro corpo: Renato Carpentieri, Alvia Reale, Elia Shilton, Caterina Tieghi) si misurano con quanto di “impersonale” le attraversa. Quell’impersonale temporale è ciò che li rende drammaticamente individui, soli, davanti al passare delle cose, alla fragilità dei corpi, alle incomprensioni, agli odi senza ritorno, alla granitica incapacità di cambiare.
Ma quel nero è anche una possibilità, quella di trovare al fondo di tale smarrimento e sprofondamento in sé e nel tempo, un contatto con l’altro, anche solo quello dei corpi nudi che si ritrovano nel finale, e che Andò – andando oltre Bergman – ci mostra in un “quadro” tutti insieme, non più personaggi ma anime.