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L'immagine mancante
Ci sono film che raccontano. Altri che documentano. E poi ci sono quelli che scavano. Scavano dentro la Storia, ma anche dentro la carne. L’immagine mancante di Rithy Panh è uno di questi. Un film che non si limita a mostrare: cerca ciò che non c’è più. Un’opera che non teme il silenzio, l’assenza, il buio. Anzi: li elegge a proprio linguaggio.
Panh è sopravvissuto all’inferno. Ha visto la sua famiglia morire di fame e di fatica sotto il regime dei Khmer Rossi. Ha visto la Cambogia ridursi a un gigantesco campo di rieducazione, dove persino il pensiero era considerato crimine. Ma non filma quel dolore con attori, né con ricostruzioni. Non simula. Non rievoca. Semplicemente: plasma. Con mani da artigiano, da scultore primordiale, modella statuine d’argilla che prendono il posto degli uomini cancellati.
È un gesto semplice, eppure radicale. In un tempo in cui il cinema è ossessionato dalla trasparenza del reale, dalla fluidità dell’immagine, Panh risponde con l’immobilità. Con la materia. Con la terra. La terra della Cambogia, impastata con il sangue, con il lutto. È quella l’immagine mancante: non la foto rubata, ma la forma muta e resistente della memoria.
Il documentario diventa così anti-documentario. Non per rifiuto, ma per consapevolezza. Le immagini del passato – quelle vere, quelle girate dal regime – sono già immagini di propaganda. Sono costruzioni, menzogne. Panh le monta, le accosta ai suoi tableaux in miniatura. E in quell’attrito visivo, in quello scarto percettivo, nasce il vero cuore morale del film: non tutto ciò che si vede è reale. E non tutto ciò che è reale può essere visto.
Nel suo gesto c’è qualcosa che ricorda il teatro delle ombre, o la tradizione dei burattini asiatici: una forma arcaica di rappresentazione, dove la finzione non nasconde ma svela. Come in Shoah di Claude Lanzmann, che rifiutava le immagini di repertorio per affidarsi alla parola dei sopravvissuti, anche Panh compie una scelta etica: non mostrare per rispetto. Perché l’orrore non si spettacolarizza.


L'immagine mancante, @Webphoto
Eppure L’immagine mancante è colmo di bellezza. Una bellezza dolente, ferita, ma presente. La lentezza delle inquadrature, la luce che accarezza i volti d’argilla, il ritmo della voce narrante che sussurra e non impone: tutto costruisce un’esperienza sensoriale che tocca corde profonde. Il film è scabro, ma mai asciutto. È meditativo, ma mai distante. Parla al cuore, ma lo fa con la lingua del pensiero.
È, in fondo, un film che si oppone alla morte due volte. La prima, come testimonianza contro l’oblio. La seconda, come riflessione sul cinema stesso. Panh ci chiede: cosa possiamo ancora rappresentare, dopo la catastrofe? Possiamo fingere, possiamo ricostruire? O forse dobbiamo cercare un’altra via, più umile, più fragile, più vera?
Come i quadri di Boltanski, come le lapidi senza nome, L’immagine mancante è un monumento funebre fatto d’arte povera. Ma è anche un atto politico. Perché ricorda che la Storia, quella vera, non è nei libri dei vincitori, né nei musei ufficiali. Sta nei corpi spezzati, nei gesti minimi, nei dettagli dimenticati.
E allora capiamo: ciò che Panh fa non è solo cinema. È una liturgia. Una cerimonia della memoria. Un rito laico in cui l’immagine si svuota del suo potere dominante e torna a essere quello che forse è sempre stata: una ferita nella superficie del visibile.
Nel secolo delle immagini infinite, L’immagine mancante ci riporta al principio: quando vedere era un atto sacro. E quando il cinema, come oggi in questo film, aveva ancora la forza di guardare in faccia l’indicibile. E non distogliere lo sguardo.