Ungheria, anni ‘90. L'abulìa di un piccolo villaggio viene sconvolta dall'arrivo dell'italiano Gerardo, un esuberante cinquantenne che ha deciso di avviare un calzaturificio. La fabbrica dà lavoro alle contadine del posto che, lontane dalla vita domestica e ricoperte di attenzioni dal loro capo, si godono l'illusione della novità. Ma in giro la gente chiacchiera sulla figura dell'italiano, e i mariti delle neo-operaie non vedono di buon occhio la loro emancipazione. La situazione precipita quando Gerardo riparte e subentra al suo posto un uomo affascinante e taciturno di nome Mario… Una didascalia avverte che la storia è basata su un fatto realmente accaduto ma è chiara l'intenzione dell'ungherese Tamás Almási di rifarsi all'omonimo racconto di Thomas Mann, nel tentativo tedioso e maldestro di trasformare l'apologo sul fascismo del romanziere tedesco in una requisitoria sul capitalismo e il suo impatto nei Paesi dell'ex cortina di ferro. Dal pretenzioso al ridicolo il passo è breve, i toni sono esagitati, gli attori patetici (Franco Nero è la solita maschera di cera) e i dialoghi fredderebbero anche i più vaccinati spettatori di fiction nostrana. Balorda la scelta di doppiare tutti in italiano.