“Pochi sono gli uomini che hanno la dote del rispetto senza invidia per l’amico felice: un veleno con sede nel cuore raddoppia la pena per chi è già malato. Ben conosco lo specchio che l’altro è per sé: che è fantasma di un’ombra”. Queste parole di Agamennone, tratte dall’omonimo dramma di Eschilo che apre l’Orestea (Feltrinelli, 2022, p.87), non riguardano solo uno dei sentimenti più radicati dell’umano, cioè la rivalità immaginaria con l’altro, l’invidia, che alimenta aggressività e violenza, ma individuano qualcosa di più profondo, su cui nel Novecento è intervenuta la psicoanalisi.

Il rapporto con l’altro ci definisce come specularità non consapevole, per cui la “malattia” del soggetto si proietta sotto forma di fantasma sull’altro, che viene percepito minaccioso, quando non corrisponde all’immagine ideale di sé. La cosa interessante è come questo amalgama originario dell’uno con l’altro, fondativo dello stesso ethos (carattere) e collocato alle origini del tragico, sviluppandosi in un mythos, in un intreccio, dia vita a due possibili forme narrative – come era chiaro all’Aristotele della Poetica: una di tipo tragico e una commedico.

Dai due generi nascono tutte le altre forme generiche imitative della prassi, cioè inscritte in un ordine mimetico (quindi con esclusione, per esempio, della poesia lirica), perché nascono dallo sviluppo narrativo di quel nucleo di identificazione originaria, da quella specularità immaginaria destinata a rompersi. Per il cinema, l’identificazione tragica dell’altro come proiezione del fantasma interiore la troviamo nel melodramma e nel noir. E molto spesso è intorno alla figura femminile che avviene tale proiezione.

Yvonne Sanson e Amedeo Nazzari in Catene
Yvonne Sanson e Amedeo Nazzari in Catene

Yvonne Sanson e Amedeo Nazzari in Catene

(Webphoto)

Prendiamo come esempio, tra i tanti possibili, due film coevi, appartenenti ad un’epoca di forte presenza di codici morali: il melodramma Catene di Matarazzo del 1949, e il noir La signora di Shangai del 1948 di Welles. In entrambi i film, vediamo il soggetto aspirato dall’immagine dell’altro, in forma implicita (Nazzari in Catene) o esplicita (Welles in La signora di Shangai). In Catene è in gioco un legame simbiotico tra marito e moglie, nell’ambito di una famiglia che abita un ambiente domestico chiuso, anche luogo di lavoro per l’uomo.

La minima alterazione di questo legame, cioè la modifica dell’immagine “ideale” dell’altro, non consente aggiustamenti ma solo rotture. Il marito, che trova la moglie lì dove non dovrebbe stare, cioè in un albergo dove è andata per allontanare il suo assillante spasimante, non la fa parlare, né si rende disponibile ad ascoltarla. Una tragedia ne scaturirà, lo spasimante morirà in una colluttazione.

Ne La signora di Shangai è invece in gioco la seduzione operata dalla femme fatale, che si fa destino per i personaggi maschili. I quali trovano tutti nella bellezza seducente e ideale della donna (Rita Hayworth) l’immagine inconsapevole di un al di là del tempo, nel quale viene cercata illusoriamente la sospensione dell’ordinario e della caducità della vita. Solo nel finale il marinaio O’Hara (Welles) ne è consapevole e desidera rientrare nell’ordine del tempo e maturare: “C’è sempre una donna al mondo che riesce ad ingannarci, e il solo modo di evitare questi guai è quello di invecchiare”.

Orson Welles e Rita Hayworth in La signora di Shangai
Orson Welles e Rita Hayworth in La signora di Shangai

Orson Welles e Rita Hayworth in La signora di Shangai

Ma la fine non può che essere comunque tragica, lo specchio qui si moltiplica nella sala degli specchi, dove si rifrangono illimitatamente le figure dei tre personaggi (marito, moglie e O’Hara), in una sorta di vertigine barocca dell’identità, in cui l’uno si proietta negli altri. E distruggere l’altro significa distruggere se stessi. Lo dice letteralmente il marito alla Hayworth, mentre si uccidono reciprocamente: “Uccidere te è come uccidere me stesso”.

Il melodramma nella forma reticolare della morale, il noir in quella più ombrosa del desiderio e della paura, riconsegnano il teatro dell’identità, in cui i fantasmi dell’io, la sua debolezza, la sua malattia, si proiettano sull’altro non riconosciuto in quanto tale; e nei confronti del quale il soggetto scatena la sua aggressività come contro se stesso. Come immaginare lo scioglimento di questo nodo tragico? Come liberare l’altro e l’io stesso dalla gabbia in cui sono intrappolati? Dalla morsa del tempo ideale nella quale il soggetto si trova incastrato, e dalla quale sembra poter uscire solo distruggendo l’altro e se stesso?

Irene Dunne e Cary Grant in L'orribile verità
Irene Dunne e Cary Grant in L'orribile verità

Irene Dunne e Cary Grant in L'orribile verità

La commedia è il genere che ha rappresentato il riconoscimento dell’altro come distinto, alla fine di un percorso accidentato e animato da equivoci. L’equivoco, sempre connesso al rischio di dissoluzione di un legame, precede il necessario e felice riconoscimento finale. Come attesta la tradizione medioevale, di cui Dante rappresenta l’esempio più icastico per come ha chiamato la sua grande opera, ciò che definiamo commedia è tale non perché si ride, ma perché c’è un lieto fine, una riconciliazione con il mondo e la vita.

Per il cinema, gli esempi sono innumerevoli, ma senz’altro la sophisticated comedy americana ha costituito un esempio impareggiabile di sviluppo commedico, dove dalla crisi iniziale, generata dal frantumarsi dell’illusione, si giunge ad un finale di riconoscimento riconciliativo, passando per molteplici peripezie (un titolo per tutti, L’orribile verità di McCarey). La commedia è dunque il genere che racconta come il soggetto arrivi a riconoscere il mondo, e l’altro che vi fa parte, dopo aver corso il rischio di perderlo. Per far questo, la commedia si installa nel quotidiano, trovando nel suo carattere ricorsivo e nella sua accettata caducità le condizioni per un approdo alla vita felice. È il tragico antico ancora a guidarci, come ci mostra un verso delle Baccanti di Euripide: “Ma colui che giorno per giorno ha una vita felice, io stimo beato” (Feltrinelli, 2025, p. 111)