C'è una megastar à la Justin Bieber, il 13enne Benjie (Evan Bird), appena uscita dal rehab dopo una lunga serie tv di successo e 780 milioni di dollari incassati dal suo ultimo film: manda a quel paese il suo agente, chiede “come va l'AIDS?” a una sua piccola fan malata di cancro, uno stronzetto fatto e finito. Che ha famiglia: la madre Christina lo amministra, il padre, Sanford Weiss (John Cusack),  è un guru dell'autoaiuto con libri e strisce tv – vizio di famiglia? - di grande successo. Non solo, Sanford fa anche da terapista a una star piagata dal ricordo della madre bruciata in un incendio e, soprattutto, dagli anni che passano e la rendono meno appetibile: Havana Segrand (Julianne Moore), che – complice Carrie Fisher – fa di Agatha (Mia Wasikowska), appena arrivata a Hollywood, la sua assistente personale. Agatha ha guanti lunghi ed ustioni sul viso, e seduce l'autista di limo e aspirante attore/sceneggiatore Jerome Fontana (Robert Pattinson).
Questi i personaggi, ma il protagonista è un altro: Hollywood oggi, patria di nevrosi, paranoie vane ed eventuali, ossessioni, invidia e gelosie, con l'incesto dietro la cortina di fumo. Hollywood dispensa sogni, soprattutto incubi e visioni a occhi aperti: da Havana a Benjie, ognuno ha i propri privati fantasmi, la propria spettrale dipendenza, una stella nera sulla cartografia celeste di Hollywood.In Concorso a Cannes, e nelle sale italiane dal 21 maggio, è Maps to the Stars di David Cronenberg, realizzato dalla sceneggiatura originale di Bruce Wagner, uno abituato a raccontare il dark side di Hollywood. Scrivendo per il cinema, non cambia focus né registro: un collage con un vago sentore di Magnolia, fratture di The Canyons, tessere - malamente - lynchane, echi breteastonellisiani, che si installa nella lunga teoria di film – critici – sulla Mecca del cinema. Ma che posto ha Maps to the Stars? Non al sole, tutt'altro: se gli interpreti – strepitosa la Moore, da schiaffi (in positivo) Evan Bird, tosta la Wasikowska – se la cavano bene, se più di qualche battuta va a segno, la sensazione è di irritazione, e non per la storia ma per il racconto. Cronenberg non tiene la barra, approccia più registri senza una chiara direzione, annacqua la critica, la satira su Hollywood nell'iperbole, nel “troppo stroppia”, seguendo un fil rouge incestuoso pretestuoso, pleonastico, titillando dall'inizio alla fine il voyeurismo dello spetattore per le celebrities.
Forse, e parliamo in primis della sceneggiatura, bisogna essere un Jerome Fontana per scrivere (dirigere) questo film, Bruce Wagner ce l'ha fatta a divenire qualcuno, e per l'autenticità, la profondità e l'acume di Maps non è un bene. Il compiacimento è esibito, soprattutto vacuo: se Pattinson, l'abbiamo capito, cerca la fuga da Twilight guidando un'altra limo dopo Cosmopolis, Maps non sa dove andare, né chi prendere a bordo. Meglio soli che male accompagnati, forse, vale anche a Hollywood, di certo vale per gli spettatori di questo film: chi può, aiuti Cronenberg a ritrovare la mappa del tesoro. Quello del suo cinema che fu.