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Lo spartito della vita
La famiglia Lunies si è disgregata nel tempo per rancori, ruggini e non detti. L'anziana Lissy (Corinna Harfouch, contegnosa) mitragliata da diabete, cancro e insufficienze renali, rifiuta la demenza senile dell’amato Gerd (un commovente Hans-Uwe Bauer). Tom (un livido Lars Eidinger), diventato a Berlino direttore d’orchestra, è figlio, fratello e fidanzato infelice, nonché padre surrogato della bambina della sua ex. La sorella Ellen (Lilith Stangenberg tormentata e punk), altra desaparecida in cerca d’amore che soffre di deficit affettivo affogato nell’alcool, ha rinnegato la vocazione canora per una gretta vita da assistente odontoiatrica.
È il mosaico famigliare intarsiato da Mathias Glasner – nella tripla veste di regista, sceneggiatore e produttore – battezzato alla Berlinale 74, presentato in Italia al 36° Trieste Film Festival, prima dell’approdo in sala previsto l’11 settembre con Satine Film.
Film corale, aggettante ma estenuante non tanto per la durata che sfiora le tre ore, quanto per la piatta staticità di una regia pur cruda, ma preoccupata soprattutto di radiografare dialoghi esondanti, ricorsivi, di rado didascalici, con sottotesti fiacchi; vorrebbero occhieggiare, ma fanno solo rimpiangere l’acume analitico di Bergman, onnipresente testo a fronte, con tanto di prevedibilissima citazione di Fanny e Alexander e non solo.
La cognizione del dolore di Glasner, dichiaratamente autobiografica nel finale, è un romanzone d’umanità varia e squinternata che il cineasta cerca di tenere insieme con la rigida suddivisione in cinque capitoli (ed epilogo) alla Von Trier. Ma i toni incupiti e rancorosi soffocano auspicabili sprazzi di umorismo, il volteggio narrativo è solo centrifugo e appesantito dalla cornucopia di personaggi su cui aleggia, onnipresente, un irredento senso di lutto: l’appropriato titolo originale, Sterben, infatti, che in tedesco significa morire, è eraso in Italia in luogo del rassicurante, “sorrentiniano” Lo spartito della vita.
Un cinema come autoanalisi, dunque, che non vuole dimostrare niente, ma solo mostrare e magari impietosire, ammassando una masnada respingente di adulti egocentrici, quindi infantili: il direttore d’orchestra (proiezione del regista) che reclama la paternità di un figlio non suo; il migliore amico che, cercando la perfezione nella composizione per l’orchestra, trova il suicidio; la compagna che, violentata, lo difende per difendere il suo posto nel golfo mistico; la sorella di Tom che esige pietà, più che amore dal collega sposato con prole; la madre che reclama a sé i figli lontani e rimprovera il marito di star morendo. Senza contare ammicchi e paludattisime analogie con linguaggio e sensi del cinema che abbondano e annoiano: l’orchestra come insieme che crea un’unica opera d’arte, il compositore che la dirige, il susseguirsi di prove, la suddivisione dei ruoli, la ricerca dei toni giusti, gli imprevisti in fase di lavorazione...
Il tutto teso ad arare il solco dialettico che divide vita e arte, dolore e sua sublimazione, famiglia e lavoro, paternità e morte, musica e cinema.