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La ragazza del coro
Tre titoli per una storia. L’originale: Kaj ti je deklica, traducibile più o meno con Come va, ragazza?. L’internazionale: Little Trouble Girls, come la canzone dei Sonic Youth che si sente nel finale, con un primo piano accanto a cui scorrono i titoli di coda per chiamarla – anche lei – con il suo nome. L’italiano: La ragazza del coro, il più semplice e diretto, apparentemente neutro eppure efficace perché definisce la protagonista (un’adolescente, interpretata dalla rivelazione Jara Sofija Ostan) e il contesto (il coro di una scuola cattolica). Sono tutti titoli che offrono varie angolazioni sul primo lungometraggio della slovena Urška Djukić, presentato come film d’apertura nella sezione Perspectives della Berlinale 2025, dove ha vinto il Premio FIPRESCI.
Un racconto di formazione canonico – è il caso di usare il termine – giacché incardinato su temi comuni: l’ascendente delle nuove conoscenze, l’amicizia femminile in senso clannico (c’è una leader carismatica, impersonata dalla maliziosa Mina Švajger), il rapporto con le autorità, la scoperta del desiderio sessuale, la paura delle conseguenze delle proprie azioni. Ma Djukić non si limita a riformulare il tradizionale repertorio di argomenti e traiettorie per tracciare un ennesimo coming of age.


La ragazza del coro
(SPOK Films)La scelta di concentrarsi sui primi piani indica la volontà umanista di mettersi accanto alle sue giovani donne in uno spazio ostile nella misura in cui rappresenta un potere (la scuola cattolica in cui tradizione vuole che il coro, diretto da un feroce, ambiguo e gelido maestro di Saša Tabaković, gorgheggi musica liturgica e pezzi del folklore locale), nonché la necessità estetica di confrontarsi direttamente con i volti e i corpi dei personaggi ed esplorarne i nascosti paesaggi interiori.
Ne viene fuori un film così sacro e carnale, sensuale e misterico, che si esalta proprio quando si confronta con quell’insieme di limiti, norme, regole imposte dall’istituzione religiosa – che costringe le ragazze a esercitarsi in un convento rurale per un weekend intensivo – al crocevia dell’imprevisto esotico ed erotico (incarnato da un giovane operaio silente e selvatico, ritratto quasi come una statua rinascimentale), della vita che si svela per ciò che nel suo scandaloso splendore così come nell’esposizione all’altrui giudizio.


La ragazza del coro
(SPOK Films)Non accumula sterili provocazioni, La ragazza del coro, né si abbandona al facile ammiccamento a un incrocio spericolato come quello tra l’emergere del desiderio e la persistenza della fede. Non è un caso – soprattutto in questo film abitato anche da una suora che spiega come la rinuncia al piacere sia sublimata dalla vocazione – che la più pruriginosa delle scene venga elegantemente sviluppata in un fuoricampo di rara precisione, peraltro annunciato da un momento che brilla nell’incanto di una vertigine romantica che è sintomo di un’estasi panica e seguito da un altro, più aspro e secco, che fa emerge come la vergogna non abbia bisogno di parole laddove le immagini definiscono l’orizzonte del disagio.
Djukić – anche sceneggiatrice con Marina Gumzi – valorizza al meglio la limpida fotografia di Lev Predan Kowarski e si affida al montaggio di Lev Predan Kowarski per passare dal racconto lineare a uno più creativo, che da una durissima prova si avvicina al gran finale, un’epifanica commistione di immagini simboliche e fotogrammi in timelaps completamente allineata all’intimità della protagonista tra shock e spaesamenti. È il designato sloveno per l’Oscar al miglior film internazionale (la coproduzione coinvolge anche Italia, Croazia e Serbia in un’affascinante alleanza balcanica), ma è soprattutto un esordio che cresce e stupisce nel corso dei suoi novanta minuti.