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Perché Lilo & Stitch è il miglior live action da un classico Disney da molto tempo a questa parte? La malizia porterebbe a pensare che, trattandosi di storia già di per sé inclusiva, la major ha avuto vita facile. Ovviamente è una prospettiva miope, non fosse altro che tradurre è sempre tradire. Intendiamoci, siamo sempre dentro un sistema fondato sulla ripetizione di certi modelli, sull’eterno ritorno dell’uguale, sulla conferma del già noto. Figuriamoci nel frangente in cui la casa madre dell’immaginario animato si trova in un momento di forte riposizionamento politico e industriale, negando sostanzialmente l’impianto ideologico degli ultimi anni e paventando un recupero della tradizione qualunque cosa voglia dire.
Eppure, perfino nell’epoca dei film costruiti sulla rivendicazione delle proprietà intellettuali (un tempo bastava rieditare in sala i vecchi film, oggi bisogna rifarli da capo) per mantenere il controllo del mercato e rinnovare il pubblico infantile (e magari ammiccare a quello pregresso), un remake come Lilo & Stitch sembra una boccata d’aria fresca. C’entra l’origine stessa del quarantaduesimo classico datato 2002, un cartoon meno costoso e sfarzoso rispetto ai grandi kolossal del Rinascimento degli anni Novanta, riesumando un personaggio creato da Chris Sanders negli anni Ottanta e messo nel cassetto in attesa di giorni miglior. Un po’ nel solco di quel che Walt Disney fece nel 1941 con Dumbo all’indomani dello sforzo di Fantasia.
Costato 80 milioni (meno dei 120 di Atlantis e dei 140 di Il pianeta del tesoro, ma anche degli 85 di Fantasia 2000), ne incassò 273 (per capirci: Atlantis si fermò a 186, Il pianeta del tesoro e Fantasia 2000 flopparono con 109 e 91), sfiorò l’Oscar nell’anno di La città incantata e generò sequel direct to video, serie televisive e molto merchandising. Come avvenne all’epoca, anche questo Lilo & Stitch arriva dopo live action più ambiziosi e controversi come Pinocchio (solo su piattaforma), Il re Leone, La sirenetta fino allo zenit Biancaneve.


E funziona di più, perché resta fedele alla storia ma ne esplora meglio le tematiche a uso e consumo dello sguardo infantile: una bambina orfana e bullizzata e un po’ eccentrica, sua sorella Nani che sta rinunciando ai propri sogni per tenere insieme quel che resta della famiglia, una comunità che si stringe attorno a chi ha bisogno di aiuto, un ambiente esotico ma malinconico e così lontano dal capitalismo; e poi un esperimento alieno in fuga dallo spazio e da chi lo vuole ridurre ad arma di distruzione, il cui romanzo di formazione procede in parallelo con quello della bambina, passando così dall’egoismo della sopravvivenza al riconoscimento reciproco di una solitudine.
Sarà, forse, che alla regia, dopo la rinuncia di Jon M. Chu, c’è Dean Fleischer Camp, autore di quella delizia indie di Marcel the Shell, prima serie di cortometraggi e poi mockumentary in live-action e stop-motion candidato all’Oscar, su una conchiglia antropomorfa alla ricerca della sua comunità. Le assonanze sono evidenti ma è il tono a fare la differenza: sono un approccio tenero e l’onestà intellettuale a valorizzare questo sorridente e malinconico apologo sul valore della diversità e contro l’individualismo, che qua e là cede a certi stilemi da tv movie (d’altronde la destinazione finale è comunque Disney+) e a qualche macchiettimso (Zach Galifianakis e Billy Magnussen). A garantire la buona riuscita anche il coinvolgimento di alcuni doppiatori originali: Sanders è di nuovo Stitich; Tia Carrere, già Nani, è l’assistente sociale; Jason Scott Lee, già surfista innamorato di Nani, è l’insegnante di hula; Amy Hill come vicina di casa. E Maia Kealoha, nuova Lilo, è perfetta.