Non lasciatevi ingannare dalla bellezza. Della bellezza, che pure irrompe sin dall'inizio nei magnifici scorci naturalistici di Leviathan, non resterà traccia alla fine dell'infernale percorso che Andrey Zvyagintsev impone allo spettatore e al suo povero cristo protagonista.

Kolia (un superbo Alexseï Serebriakov) è un brav'uomo che vive di riparazioni in una piccola città costiera del nord della Russia. Insieme alla seconda moglie, Lilya (Elena Lyadova), e al figlio di prime nozze, Roma (Sergueï Pokhodaev), dimora in una vecchia casa di legno appartenuta per generazioni alla sua famiglia. E tutto andrebbe a meraviglia, se il suo terreno non facesse gola allo spregiudicato sindaco Vadim (Roman Madianov), che vorrebbe portarglielo via e soddisfare così gli appetiti degli speculatori. Kolia proverà a fermarlo in ogni modo, richiamando da Mosca “un amico” avvocato, appellandosi al diritto, al sacro senso di giustizia, alla tradizione, ma alla fine perderà tutto.

Zvyagintsev riapre i giochi del concorso con una rilettura del Leviathan di Hobbes di rara forza espressiva. Sfruttando la potenza allegorica di un lembo di terra aspra, suggestiva, astratta, affacciata sul Mare di Barents, il regista de Il ritorno imbastisce una commedia apocalittica e kafkiana sulla corruzione dell'odierna Russia, il Leviatano che continua a divorare aspirazioni, diritti e libertà. Le sue leve sono lunghe, implacabili, inimmaginabili: dalla politica alla religione (impietosa la raffigurazione della Chiesa Ortodossa), dalla giustizia alle forze dell'ordine, tutto lavora perché lo Stato, questo straordinario e perverso meccanismo di dominazione, continui ad alimentarsi e a riprodursi, corrompendo persino i legami più sacri. Come dice il Pope al sindaco: “Lavoriamo per la stessa cosa, ma in territori diversi”.

E se la tragedia di Kolia guarda da vicino a quella del Serious Man dei Coen (entrambi novelli Giobbe), la chiave di lettura è invece decisamente politica: Leviathan è una denuncia durissima stemperata appena dalla bonaria ironia con cui Zvyagintsev biasima i costumi dei propri connazionali (a partire dal bicchiere facile).

Superbo lo stile visuale (la fotografia è di Mikhail Krichman), azzeccatissimo il cast, suggestivo il tappeto sonoro (Philip Glass). Ai cultori della sottrazione potrà sembrare forse prolisso e ridondante (in linea comunque con la tradizione narrativa russa), ma il vero difetto, se proprio bisogna trovargliene uno, è l'eccessivo avvitamento della trama attorno al proprio obiettivo polemico: lo schema sotteso al racconto di tanto in tanto riemerge sovrapponendosi allo sviluppo naturale e plausibile dei fatti.