Un’esorcista in Lambretta (con tanto di scudetto Ferrari sul muso) che scorrazza dal Vaticano alla Spagna, una Congregazione per la Dottrine della Fede che ne chiede la testa perché crede nel Male ma non nel disagio psichico, e un Franco Nero (in principio trascinatore di bare, ora, al crepuscolo della carriera) papa barbuto (?) che gli affida un bambino posseduto dal Male. 

È il triangolo tensivo disegnato da Julius Avery (Samaritan) per agghindare la sua macedonia (indigesta, diciamolo subito) di suggestioni storiche (di Storia nel film c’è ben poco, forse niente), leggende, folklori, voli pindarici, stereotipi nazionalpopolari, topoi cinefili per un film che più che nell’horror sguazza giulivo nel bislacco ai confini del no-sense, con tanti saluti alla sospensione dell’incredulità. 

E pensare che la figura da raccontare era nota, perfino leggendaria per il fascino ambivalente che porta con sé: padre Gabriele Amorth, L’esorcista del papa  – come vorrebbe il titolo levantino e incantatorio (come tutto il film) -, il prete, protagonista dal 1986 di migliaia di esorcismi per la Santa Sede documentati in più libri in modo maniacale. Soprattutto Un esorcista racconta e Nuovi racconti di un esorcista, i testi di Amorth a cui gli sceneggiatori Hastings e Spiliotopoulos dicono di essersi ispirati – con tanto di didascalia in explicit “I libri sono belli”, sic-. Avery, però, deve essersi scordato di leggerli. O li avrà “riscritti” affidandosi solo alla sua immaginazione cinefila.

Perché la fantastoria ha poco o nulla di veritiero, e ancor meno di rigorosamente biografico. Piuttosto è l’ennesima, strampalata variazione, senza innovazione, sul filone ormai quarantennale inaugurato da L’esorcista (1973).

E perché il Russel Crowe roccioso, barbuto e autoironico che incarna Amorth (no, la fedeltà somatica non è di questo film), dopo un promettente inizio folk-horror tra maiali e lupare in Calabria, va in missione per conto di Dio a liberare il piccolo posseduto che vive con madre e sorella in una vecchia abbazia spagnola in rovina. 

Basta qualche sgasata di Lambretta, così, e Amorth è catapultato nel più classico, anzi nel più citazionistico circo equestre del genere: la chiesa sconsacrata che nasconde dei presunti complotti secolari dell’Inquisizione; il pargolo allettato, sfigurato nel volto e nella mente; madre e sorella adolescente in balia degli spettri satanici; un prete novellino analfabeta in esorcismi; immancabili crepe nei muri, temporali, allucinazioni, perversioni (obbligatoriamente nelle fattezze di giovani donne ammiccanti e perdute, una ciascuno per i due prelati).

Solo che le connessioni logiche saltano ben presto, i generi sfiorati si moltiplicano e si sabotano a vicenda (dal mistery all’horror, dal giallo all’action, con tocchi anche di commedia nera), le stramberie di scrittura abbondano, i dialoghi sovente si fanno didascalici strangolando la forza evocativa immagini, il corpo a corpo prete-Diavolo mai realmente sconvolgente, e la grancassa di effetti speciali che diluvia nella seconda parte rende (quasi) comico il pauroso, il tragico grottesco. 

Avery, insomma, pare molto più interessato a forgiarsi da solo, a mani nude, il suo Amorth, facendoci vedere come Hollywood sa deformare il Vaticano a suon di stereotipi, che a inserire una vicenda realmente accaduta nel suo contesto, tirandone fuori tutti i sensi mistici, religiosi, antropologici che può avere.

Non solo, ma (per carrierismo?) si premura di convalidare ad ogni scena i classici canoni narrativi da saga Marvel: il film divo-centrico, l’aiutante impreparato, le vittime inermi che impietosiscono, l’eroe che per esorcizzare i demoni interiori degli altri deve prima esorcizzare i suoi, il duello finale tra il Male e il Bene come sbocco obbligato della storia, e il finale apparecchiato ad hoc per un sequel (uno, tanti o nessuno deciderà il botteghino che, per ora, almeno da noi, timidamente pare sorridere al regista).

Ne esce fuori, così, un film pretenzioso se non ricattatorio, involuto e cospirazionista che sfrutta l’impianto biblico delle premesse in vena tragicomica per stordire lo spettatore senza dargli vera cognizione della figura al centro della storia. Avery sacrifica la religiosità di gesti, azioni e parole sull’altare dell’ipnosi portentosa, costruita a colpi continui di badilate sonore ed effetti speciali.

La biografia e la tensione morale di Amorth, così, che pure sembrerebbero a primo acchito l’isola del Tesoro per qualsiasi sceneggiatore, sono sepolte dai fasti di una messinscena devozionale, dalle continue piogge (acide) di uno splatter che sovente pare puro compiacimento effettistico, dalle sfacciataggini di una scrittura autoreferenziale e sbarazzina, da dialoghi che si mettono a spiegare per filo e per segno tutto quello che succede sgonfiando, di conseguenza, ogni avvisaglia visiva di terrore.

Insomma, Avery, nascondendosi dietro un budget imponente e una star di sicura presa sulle masse, dallo spioncino della sua cinepresa si mette a guardare (non osservare) e giudicare compiaciuto una realtà che dimostra di non conoscere. Perché forse, banalmente, non aveva nessuna voglia di farlo.