“Non mi sono mai sentito tanto solo… Il dolce della gloria non può compensare l’amaro di quanto è costata”.

Dall’epistolario di Luigi Pirandello con la musa, amata Marta Abba, riemerge lo stato d’animo del grande drammaturgo, accademico italiano nel momento in cui, nel 1934, viene insignito del Premio Nobel.

È la voce fuori campo dello stesso (a prestarla è Roberto Herlitzka) a introdurre la visione di Leonora addio (unico italiano in gara a Berlino, poi in sala dal 17 febbraio), primo film diretto da Paolo Taviani in solitaria dopo la morte del fratello Vittorio (2018), alla memoria del quale l’opera è dedicata sin dai titoli di testa.

Non a caso, perché nel suo continuo intrecciare materiali di repertorio, immagini provenienti da una cinematografia passata eppure così fortemente radicata (caposaldi del neorealismo come Paisà di Rossellini o Il bandito di Lattuada, passando poi per L’avventura di Antonioni, Estate violenta di Zurlini e il pirandelliano Kaos dei Taviani stessi), finzione che rielabora in due episodi distinti (il dopo) vita e opera di Pirandello, il regista, giovanissimo 90enne, ragiona con sguardo libero sul senso della fine, sul “dolce della gloria” e sull’amaro “di quanto sia costata”, sulle nostre radici, su quello che rimane di un uomo, di un grande artista, una volta che non ci sarà più.

Paolo Taviani
Paolo Taviani
Paolo Taviani
Paolo Taviani

La sagoma dello scrittore morente nel letto di una stanza inquadrata quasi a ribaltare la camera fissa kubrikiana di 2001: Odissea nello spazio, l’incedere dei tre figli che da bambini si trasformano in adulti poi in anziani al capezzale di un padre che, per sua stessa volontà, proibirà al fascismo di celebrarlo col funerale di stato: “[…] Bruciatemi. E il mio corpo appena arso, sia lasciato disperdere; perché niente, neppure la cenere, vorrei avanzasse di me. Ma se questo non si può fare sia l’urna cineraria portata in Sicilia e murata in qualche rozza pietra nella campagna di Girgenti, dove nacqui”.

Leonora addio (che richiama il titolo di una novella pirandelliana, ma si concentra su altro) racconta la rocambolesca avventura delle ceneri del grande scrittore e il viaggio dell’urna da Roma – dove rimane “provvisoriamente”, al Verano, una decina d’anni – ad Agrigento, nel 1947, fino alla sepoltura avvenuta 15 anni dopo.

Fabrizio Ferracane interpreta il delegato comunale girgentino incaricato del “delicato” trasporto, che avviene all’indomani della liberazione: è in questo frangente di passaggio che il film si insinua nei chiaroscuri, nelle penombre di un paese che ancora non ha ben capito cosa sia stato e che cosa sarà.

La cassa che custodisce il vaso greco con quelle ceneri nel buio di un vagone sovraffollato (dopo il mancato decollo dell’aereo militare americano preposto inizialmente al viaggio) diventa anche improvvisato appoggio di una partita a Tressette “col morto”, mentre i panorami di un meridione immobile, bellissimo, incominciano a scorrere al di là dei finestrini.

Consumato il paradossale, pirandelliano caso delle ceneri pirandelliane, il bianco e nero di Leonora, addio si tramuta in colore caldo (due i direttori della fotografia, Paolo Carnera e Simone Zampagni), per ricostruire il fatto di cronaca che lo scrittore restituì nel suo ultimo racconto, Il chiodo, venti giorni prima di morire. Storia di un ragazzino strappato dalla sua Sicilia che a Brooklyn compirà un gesto tragico e insensato.

Matteo Pittiruti, Dani Marino e Dora Becker in Leonora addio - @Umberto Montiroli

Che cosa resta di Pirandello? Moltissimo. E Paolo Taviani traduce in maniera audace questo lascito eterno, attraverso un (doppio) film che si alimenta di continue suggestioni, letterarie, storiche, cinematografiche, finendo per fondere - come sintetizza il regista stesso - "la verità della cronaca con un’altra verità, quella del film". Senza rifugiarsi in alcun modo nel facile didascalismo, disdegnando le scorciatoie dell'ovvio, rielaborando i "fatti" attraverso la poesia, e la prosa, del cinema.

“Ai miei figli, giovani oggi, vecchi domani” (I vecchi e i giovani, 1909).