In anteprima mondiale al 73. Festival Internazionale del Cinema di Berlino, in Concorso nella sezione Encounters, e dal 16 marzo nelle nostre sale, è Le mura di Bergamo, diretto da Stefano Savona e realizzato con il supporto di Danny Biancardi, Sebastiano Caceffo, Alessandro Drudi, Silvia Miola, Virginia Nardelli, Benedetta Valabrega, Marta Violante, già suoi studenti alla scuola di documentario del CSC Palermo.

Produzione ILBE (Iervolino & Lady Bacardi Entertainment) con Rai Cinema, racconta l’arrivo del COVID-19 in Italia, segnatamente a Bergamo, la città-simbolo del primo accanirsi della pandemia, che chiese ai sanitari di prendere una devastante decisione su chi dovesse vivere e chi morire, a causa del sovraffollamento degli ospedali e della carenza di dispositivi medici. Chi ha dimenticato i camion dell’esercito colmi di bare per le vie della città orobica?

Come recita una sinossi una volta tanto non peregrina, “nel marzo 2020 la città, dentro le sue mura, è un corpo malato. È un insieme di cellule, di tessuti, di organi che non riescono più a comunicare. Le strade si sono svuotate, gli scambi azzerati, gli incontri proibiti. Disconnesso dagli altri ogni corpo è solo all’interno delle sue mura. Il corpo della città è un organismo devastato che prova a reagire. Medici, infermieri, pazienti, volontari, e anche chi non ha vissuto direttamente il dolore della malattia cerca un proprio ruolo nel processo di guarigione collettiva”

Avvertenza: piangerete come vitelli, senza che ci sia una volontà in merito, un innesco poetico. È la realtà che scatena la reazione, una realtà davvero colta nel suo farsi, selezionata e combinata quale linguaggio insieme cinematografico e umano, troppo umano. Non stupisce, invero, da parte del regista de La strada dei Samouni (2018) e Piombo fuso (2009).

Le mura di Bergamo è rimozione del rimosso, ripristina il collegamento tra memoria e futuro, ripara – almeno, ci prova - le lacerazioni pandemiche e post-pandemiche del tessuto familiare e sociale, elaborando il lutto ma ancor più rielaborando la vita, ovvero aprendo a una nuova ritualità della morte stessa.

Parole, sguardi, silenzi, medici che si sacrificano, qualcuno almeno, pazienti che si salvano ma perdono i congiunti, uomini e, che forza, donne delle onoranze funebri che non si rassegnano, la temperie sarebbe post-apocalittica, ma la speranza non si consegna mai al fuoricampo, e il visuale del cinema trasfigura nella visibilità della vita: “Tre anni fa con un gruppo di giovani registi abbiamo attraversato un’Italia deserta per arrivare a Bergamo nel mezzo di una crisi mai vista. In punta di piedi - commenta Savona - abbiamo iniziato a filmare le vite di chi, rischiando in prima persona, cercava di affrontare la catastrofe che ci stava investendo tutti. La nostra scommessa è stata quella di restituire i movimenti di una comunità in resistenza”.

Un’osservazione miracolosamente sospesa tra partecipazione e distacco, una realizzazione con licenza salvifica, un peana alle sorti progressive e progressiste del cinema del reale: lacrime e applausi.