Amore spezzato tra madre e figlia, fin dalle viscere, perché già nei primi nove mesi il rigetto matura e l'indisposizione alla maternità cresce dirompente in Isabelle Huppert che si confessa, a gesti nevrotici e parole spezzate - talvolta solo nervosamente scritte in una miriade di fogli - alla psichiatra che la segue e la cura, interpretata da una intensa e convincente Greta Scacchi.
Film dolente nel quale l'incomunicabilità fa da preludio alla morte e l'odio alla presa di coscienza: odio, dunque sono. Non lesina, Alessandro Capone, tragici primi piani e rarefatte confessioni, panorami foschi di anime femminili chiuse in se stesse, mentre l'unica apparizione e voce maschile è quella, poco amabile anch'essa, di un bel giovane poco sincero.
Opera che fa dello sgradevole rapporto tra madre e figlia il perno metaforico per svelare qualche cosa della nostra arida società, schiacciata e drogata dal peso delle notizie, non più fortificata dalla veridicità dei rapporti umani e familiari. Brava è Mélanie Laurent, la figlia che non accetta nemmeno più la vita; mentre la Huppert tratteggia un ritratto femminile che si assomma a quelli più volte sperimentati e che dovrebbero ora ricordarle come altre figure di donne e madri popolano il cinema: si auspica, insomma, per lei così brava, la rottura di uno schema. Inaspettata giunge la morte, non sappiamo quanto liberatrice, ma certo farmaco intenso per imporre, a chi resta, quel minimo di responsabilità atta ad assicurare agli innocenti che restano un minimo di pace, di sicurezza, di prospettiva. Fitti gli sviluppi dell'anima, corruschi i drammi dell'esistenza, aperto su una natura selvaggia e anch'essa poco consolatoria il finale di quest'opera difficile, spiazzante, buia.