“Il cinema di Troisi per me era bello perché aveva la forma della vita”, dice subito Mario Martone. Del compianto Massimo, di cui il 19 febbraio celebriamo il settantesimo della nascita, il regista firma un omaggio accorto e accorato, affettuoso e colto: Laggiù qualcuno mi ama, docufilm presentato al 73° Festival di Berlino.

Un viaggio personale, fin troppo ricco produttivamente e con evidente sprezzatura giacché a leggere i foglietti sono, tra gli altri, Toni Servillo e Valerio Mastandrea che nei fatti desumiamo solo dai titoli di coda.

Martone inquadra Troisi quale attore, comico e, quasi prioritariamente, regista sullo sfondo della sua città, Napoli, dalla cui tradizione, Eduardo e Totò, invero scollega, ma anche del cinema tout court: “Veniva in mente Truffaut e la Nouvelle Vague. Al centro c’era la vita messa in scena spudoratamente: tutto diventava politico perché vita”. Martone prende il polso alla Troisitudine e traccia il parallelo con l’interprete che Truffaut farà crescere sullo schermo, da I 400 colpi in poi: Antoine Doinel, ossia Jean-Pierre Léaud. La simmetria sta in piedi, e Francesco Piccolo, la prima delle talking heads convocate da Martone, la consustanzia: Troisi, ovvero le sue declinazioni cinematografiche, e Doinel condividono “la forma di esistenzialismo più affettuosa, la fragilità”.

Poi, dunque prima e durante, l’amore, il topos più immediatamente percorribile di Troisi. Per chi scrive invero sarebbe il malessere, ma si ha la sensazione di essere in forte minoranza.

La corsa di Jules et Jim e le sue tante corse a specchiarsi, poi la donna che ha voluto accanto al tavolo di scrittura, Anna Pavignano, cui Martone concede di essere prima inter pares. Torinese e non napoletana, giovane e non matura come la gente si immaginava, Pavignano è femminista, imbibita delle teorie di Cooper, incline al sovvertimento della famiglia e altre istituzioni, sicché accade che “un maschio meridionale metta in scena donne che lo mettono in crisi”. I suoi foglietti, più che appunti sistematizzazione del frammento, le registrazioni e un’epifania di senso che più senso non si può: “Ciao ‘uomo’, scritto a una donna”.

Il genius loci, San Giorgio a Cremano, un talento irregolare, uno spirito libero, un’indole “paziente” (da Andrea Pazienza), un cuore debole: scrive, “"eppure io un sorriso l'ho regalato".

Con Valeria Pezza per I saraceni, con i soli Lello Arena e Enzo Decaro ne La Smorfia, Massimo è incontenibile senza tracimare, colpisce senza affondare il colpo, è ironico sempre, sicché appella il padre che ebbe sei figli “un piccolo borghese andato un po’ più indietro”. Il suo primo film, strepitoso successo: Ricomincio da tre. Altri foglietti, che catturano “una tenerezza ancora non irrigidita dai fallimenti”, e poi Giuseppe Bertolucci, che gli assegna “un’ombra metafisica”.

La morte, topos influente, persino titolo di film tv: Morto Troisi, viva Troisi! (1982). E Paolo Sorrentino che gli ascrive il finale di È stata la mano di Dio: “Grande regista”, Massimo.

Ancora Piccolo, a scrutare nella materia umana, nella massa artistica: “Troisi si dimostra al di sotto delle propria possibilità e ci avvicina”. L’incontro con un altro dal cuore fragile e grande, Pino Daniele, la segreteria telefonica di Massimo che canta “Tu dimmi quando, quando”. Un “attore anima” come Chaplin, che divide il set di Non ci resta che piangere con Roberto Benigni e ci folgora: “Ricordati che devi morire! – Mo’ me lo segno!”. Eppure, vuole Sorrentino, “Troisi è un comico anomalo, non folgorante”.

L’impegno intellettuale, Pasolini per exemplum non accorciato, la terna con Scola e Mastroianni, il tema esausto di Napoli che deve cambiare, quindi “la sorte e la morte che sono due parole quasi uguali”.

Infine, Il postino, per cui rimanda il trapianto di cuore negli Usa: il giovedì lavora tutto il giorno e completa la sua parte, l’indomani muore. Quaggiù più di qualcuno ancora lo ama.