Una moglie morta bruciata in un incidente stradale, e per il chirurgo plastico Robert Ledgard (Antonio Banderas) una missione: creare una pelle artificiale, quella che avrebbe potuto salvarla. Ci riuscirà 12 anni dopo: un tessuto epidermico resistente a tutto, quasi ignifugo e repellente per gli insetti. Problema, come testarlo? Gli serve una cavia umana, e la troverà nel ragazzo che ha abusato di sua figlia: Vicente (Jan Cornet) , ma per lui è in arrivo una nuova, Vera identità.
Nel cast anche Elena Anaya, Marisa Paredes e Roberto Alamo, è La pelle che abito (La piel que habito) di Pedro Almodovar. Esplicitamente (post)postmoderno, pure troppo, il film è all'apparenza un thriller fanta-sociale, ma tratta tutto e tutti con estrema superficialità: la macchina da presa di Almodovar è il bisturi di una chirurgia estetizzante, non estetica. E in questo, il titolo fa fede: la pelle, non il corpo. E tanta noia: non mancano battute che potrebbero far ridere - “Mi chiamo Vera, Vera Cruz”: fa ridere? -, ma disseminate in una narrazione che non si prende mai sul serio, come (post)postmoderno vuole, e pure rischia di sfiancare lo spettatore.
Se puntualmente ritornano tutti i topoi del cinema di Almodovar – dal feticismo alla tavolozza satura, dal rapporto madre-figlio all'ironia sul sesso, e chi più ne sa più ne metta – se ne fa cattivo uso: un'invasione, un affastellamento che toglie respiro alla drammaturgia (e allo spettatore) e offre residenza alla summa, ma la più massimalista, non la più lucida.
Insomma, nonostante il ventilato slittamento poetico (a partire dal genere di riferimento) è un Almodovar al 100%, che più Pedro non si può. Anzi, Almodovar che fa Almodovar: senza preoccuparsi di altro, nemmeno de La piel que habito. Così il film è uno shar pei, Pedro tutto panza e niente sostanza.