Il filippino Brillante Mendoza ha due pregi: gira in fretta - ma lo è davvero? - e ha un nome che non si dimentica. Trovarne degli altri, però, è impresa difficile. L'anno scorso aveva portato in concorso a Cannes la famiglia formato porno non-porno di un cinema a luci rosse di provincia, Serbis, che molti avevano lodato equivocando sulla natura meta-linguistica dell'operazione, quest'anno torna alla carica con Kinatay, sull'iniziazione criminale di un giovane padre di famiglia, che studia per diventare poliziotto ma va a scuola di gangster: e fa peggio.

Problemi principali sono una costante contraddizione in termini e l'incapacità di osare.

Al primo va ascritto lo sterile contrappunto tra guerrila-style, con immagini sporche, scure, e volontariamente brutte a veicolare indipendenza estetica e ambiguità poetica, da un lato, e dall'altro il ricorso a fastidiosi didascalismi (la scritta sotto la statua di Cristo, quella sulla maglietta della scuola di polizia del ragazzo, etc.) e scoperte metafore (il sottofinale con il bus che passa dopo il "macello"; il finale con la suspense sulla scelta del protagonista tra bus, ossia la povera e onesta vita precedente, e il taxi, la "bella vita" criminale), ovvero una volontà di far chiarezza che tradisce viceversa l'insincerità e la debolezza dei propri mezzi autoriali. Inoltre, il poco Brillante Mendoza non sa nemmeno essere radicale sul versante splatter, servendo su un piatto d'argento nonsense uno stupro e uno smembramento poco più che oleografici. Insomma, manca l'onestà e manca un autentico glocalismo, perchè Kinatay fa il percorso opposto: parte dalle aspettative del pubblico (festivaliero) occidentale e cerca di soddisfarle in patria. Invano.