Io vivo altrove! è il primo film da regista di Giuseppe Battiston, anche co-produttore (Rosamont con Minimum Fax Film e Rai Cinema) e co-protagonista a braccetto con Rolando Ravello, ben calato nella parte del cinquantenne dimesso e mammone.

Liber(issim)a trasposizione del romanzo enciclopedico e incompiuto di Flaubert Bouvard e Pécuchet, la sceneggiatura dallo stesso regista con Marco Pettenello (Lontano, lontano, Welcome Venice) sposta la Francia ottocentesca e latifondiaria nelle colline friulane dei giorni nostri. 

Più che il cinema di Mazzacurati, però, lo schema narrativo sogguarda proprio la commedia corale di Di Gregorio: adulti non più di primo pelo che si coalizzano per fuggire da una metropoli (sempre Roma) ormai invivibile. Ma se in Lontano lontano il tema è srotolato con agio, qui rimane alluso (come un po’ tutto il resto) come un pretesto per spostare subito la storia altrove.

I cinquantenni Biasutti e Perbellini condividono il nome, Fausto e un’esistenza grigia e modesta: bibliotecario vedovo l’uno, perito elettrotecnico l’altro subissato da una madre matrona. Diventati amiconi per caso, quando al bibliofilo piove in eredità un casolare a Valvana (campagna udinese), ci si trasferiscono subito sfidando la diffidenza dei paesani, per vivere in autosufficienza dei prodotti dell’orto. 

Il lucido cinismo – al confine col sadismo - con cui Flaubert si diverte a sballottolare le sue creature, un fallimento dopo l’altro, di fronte alla Natura qui, però, è impoverito in una vena sentimentalista a (serio) rischio patetismo; i campagnoli del Duemila sono sobbarcati di drammi familiari assenti nei “lucidi cretini” transalpini.

Due (questo il titolo originale) amici, dunque, che scelgono la campagna non per conoscerla (e dominarla), ma per solitudine, perché comprimari della loro stessa esistenza. Scomparsa, così, la tensione enciclopedica, la guerra dei Fausti perde ambizione e memorabilità: nel film della politica non c’è nemmeno l’ombra; i libri rimangono come bussola per fare la birra artigianale; ingrato e inconoscibile non è tanto l’ordine naturale -i campi offrono solo vagonate di radicchio- ma la vicina cipigliosa che vorrebbe accaparrarsi le loro terre e i compaesani che li rispedirebbero volentieri a Roma.

Se Flaubert frusta i suoi personaggi per appaludirne, poi, i progressi, Battiston non gli mette i piedi in testa (è questo è un merito) ma gli (e si) riserva continuamente tante carezze (questo meno).

Ne esce fuori una commedia garbata sulla mezza età in salsa agreste, con una graziosa (e riuscita) sotto trama amorosa. Ma la campagna è più stereotipata che autentica perché la città la guarda e la giudica. Di più: la sceneggiatura, troppo compassata, annacqua la dialettica tra la città come sparizione dell’identità, e la campagna come sua affermazione, perorando fiabescamente la causa del ritorno alla natura. A rimetterci è il ritmo che spesso langue, con un climax più telefonato che preparato che finisce per appiattire l’arco di trasformazione dei personaggi.