I migranti come gli umani, le istituzioni come gli zombie. Non è un horror - almeno, per genere di riferimento: ma la nostra realtà? - ma il nuovo Ermanno Olmi, che fa de Il villaggio di cartone uno dei tanti villaggi alla periferia del villaggio globale. E, insieme, un villaggio protocristiano, che ricorda come il Tempio sia conseguenza necessaria dell'annuncio e della comunità, e non condizione necessaria e sufficiente di una comunità. Al bando, dunque, la reificazione, maledetta l'istituzione: se c'è la comunità, se ci sono le genti, già la loro natura è il Tempio, e il cartone basta e avanza per edificarlo.

Accerchiati, dunque, in una chiesa sfitta di nome (via dagli orpelli, via dalla simonia...) ma non di fatto, i migranti sentono gli elicotteri, vedono le luci blu, avvertono le sagome inquietanti del Sistema, ma sono al sicuro. Perché non c'è più il crocefisso, ma Dio c'è. E c'è il vecchio prete (Michael Lonsdale), che in quella chiesa è nato e cresciuto e ora la vede trasformarsi ne Il villaggio di cartone, il cartone che ripara, scalda l'umanità. “Viceversa, c'è un altro cartone, quello della realtà virtuale, del villaggio globale”, ha detto  il maestro Olmi, fresco 80enne, già fuori concorso alla Mostra di Venezia e ora in sala con Michael Lonsdale, il sacrestano delatore Rutger Hauer (che ritrova 23 anni dopo La leggenda del santo bevitore), Alessandro Haber, Massimo De Francovich e tanti migranti.

Migranti clandestini, ma l'accoglienza – sostiene Olmi - non conosce passaporto: l'accoglienza cristiana (ancor prima e più che cattolica), cui piega senza sforzi e con fin troppa generosità illustrativa la cifra poetico-stilistica: immagini pittoriche (Caravaggio, of course) ad alto voltaggio simbolico, il potere alla Parola (al limite del didascalico e dalle parti dell'affabulatorio) e una vigorosa tensione umanista, che tra istituzione e fede non ha dubbi, tra decorare e dire non ha tentennamenti.

Perché il messaggio è fin troppo evidente, ma il regista non se ne cruccia: l'art pour l'art non gli interessa, dalle conversazioni con Magris e Ravasi discende un cinema vantaggiosamente prestato al teatro, un Presepe vivente eterodosso e animato qui e ora, con la materia di cui sono fatti i sogni e gli incubi del fu Bel Paese.

Il villaggio di cartone, dunque, è la possibilità di un'isola, l'isola che - Italia oggi - non c'è: diritto di cittadinanza? No, dovere di umanità, il nostro comune denominatore, senza impronte né epidermiche tavolozze.

Sì, Olmi è umano, troppo umano, il suo Cristo - niccianamente? - pratica di vita, il suo “dobbiamo abbattere le Chiese” un memento di esegesi, perché se il saggio Salomone costruì il Tempio finì per perdersi nell'idolatria, ovvero un'altra declinazione della ricchezza che può divenire “un crimine”. Non bisogna, dunque, avere timore, nemmeno di semplificare la realtà per una supposta e buonista Grazia ricevuta: nel Villaggio non abita il volemose bene, perché la realtà non esce mai di campo, nelle sue disforie e nelle sue - altrove inconfessabili - aporie. Vi immaginate un film “dalla parte giusta” sulla contrapposizione tra noi e loro, noi e i migranti, che lasci spazio alla suggestione terroristica, ovvero a un ragazzo con la cintura esplosiva dei kamikaze?

Qui è possibile, anzi, qui accade, perché l'impegno civile non è militanza armata, non è integrazione - senza se e senza ma - con l'agenda politica alla mano, bensì impegno a dire dell'uomo, senza voli pindarici, senza celare il messaggio, ovvero il Verbo. E pazienza se si rischia il discorso troppo diretto, l'apologo morale, perché la lectio divina non è tradotta in lectio magistralis, bensì in lessico familiare, dialogo comunitario, esperanto spirituale: non la vita come il cinema, ma il cinema come la vita. Perché nella vita non ci sono né migranti né stanziali, ma solo uomini. E sono tutti di passaggio.