Le folte chiome degli alberi viste dal basso, prima all’alba e poi al crepuscolo, aprono e chiudono Aku wa sonzai shinai (titolo internazionale: Evil Does Not Exist, cioè Il male non esiste), splendido apologo teorico con cui Ryusuke Hamaguchi approda in Concorso a Venezia 80 dopo il successo internazionale di Drive my Car.

È il dramma di una comunità – un villaggio nei pressi di Tokyo, emblematico di un Giappone non immune al tempo che passa ma ancora immerso in una dimensione atavica – riverberato nell’esperienza dei singoli, in cui sin dai primi, ammalianti minuti Hamaguchi stringe un patto con la natura, mettendosi in ascolto del suo ciclo perpetuo, dando a immagini “documentaristiche” la caratura epica di un quotidiano che si ripete identico nei secoli.

A interrompere quell’ordine delle cose che si rinnova di generazione in generazione, fondato sul rispetto degli spazi, sulla convivenza con gli animali (i cervi che, se feriti, attaccano) e soprattutto sulla centralità dell’acqua, ci si mettono due funzionari, che convocano gli abitanti della comunità per comunicare (e non mettere in discussione) l’imminente costruzione di un glamping, inteso a offrire ai residenti delle città una fonte di evasione nella natura.

La lunga sequenza del confronto è memorabile: usando un’efficace alternanza di campi e controcampi, Hamaguchi (anche montatore con Azusa Yamazaki) mette al centro le parole, delega la tensione alla temperatura emotiva del dibattito, affida a una serie di personaggi diversi (un giovane fumantino, il sindaco saggio, la forestiera trapiantata e, in primis, il tuttofare) il compito di raccontare l’anima di un luogo, il senso di una storia, l’identità di un popolo. Tutto ciò perché si capisce da subito che il progetto, così com’è stato pensato, avrà un impatto negativo sulla rete idrica locale, sovvertendo le abitudini di umani e animali e mettendo in pericolo l’equilibrio ecologico dell’altopiano.

Per evitare che esploda il malcontento generale, da Tokyo si architetta un piano: portare il carismatico tuttofare Takumi (lo straordinario Hitoshi Omika), che cresce da solo una figlioletta vivace, dalla parte dei barbari, affidandogli un incarico di responsabilità che possa garantire il villaggio.

Assistito da una pulizia dello sguardo che gli permette di scoprire il dramma del quotidiano e da una rara capacità di sentire l’altro cogliendo l’umanità dietro la fissità, Hamaguchi si conferma un narratore incredibile nel tradurre la teoria in pratica. In Evil Does Not Exist, un film libero e vivo, piccolo e universale, c’è più disincanto e meno malinconia rispetto al fortunato dittico del 2021 (Il gioco del destino e della fantasia e Drive my Car) e si percepiscono gli echi della tradizione locale (Mizoguchi e Ozu) così come del cinema indipendente americano (Cassavetes resta il faro dell’autore).

Soprattutto, al di là di qualche veniale tendenza alla dilatazione, Hamaguchi – qui sostenuto dall’immersiva colonna sonora di Eiko Ishibashi, personaggio a sé – è un regista che lascia spazio allo spettatore: lo dimostra il finale a sorpresa, che se da una parte forse evidenzia la struttura a tesi – magari deludendo qualche aspettativa – dall’altra ci chiede lo sforzo di incaricarci di una risposta, interrogando non solo la nostra sensibilità ma anche le nostre paure.