Film come Il caso Braibanti (presentato in concorso al 56esimo Pesaro Film Festival) sono importanti soprattutto per ciò che raccontano, non fosse altro perché Massimiliano Palmese e Carmen Giardina si sono preoccupati di far riemergere dall’oblio una vicenda oggi dimenticata ma che invece rappresenta un fondamentale turning point nella storia italiana.

Quasi a sottolineare la rimozione della figura di Aldo Braibanti, il documentario è attraversato dai frammenti di un intervento che Sergio Del Giudice gli dedicò alla Camera all’indomani della morte. Tra il fastidioso brusio persistente di un emiciclo, emerge plateale il diffuso disinteresse nel ricordare una pagina vergognosa del nostro passato recente.

Poeta, artista visivo, drammaturgo, studioso delle formiche, Braibanti, nell’estate del 1968, fu accusato di plagio dalla famiglia di Giovanni Sanfratello, un giovane che sostenne negli studi, incoraggiò artisticamente e con cui intratteneva una relazione sentimentale. In attesa del processo, Braibanti fu arrestato, Sanfratello internato in manicomio.

In un’Italia attraversata dai fermenti ribelli della contestazione, il caso Braibanti costituì una delle occasioni di rivalsa per la risacca reazionaria, grazie all’intervento di bigotti magistrati che colsero nel processo l’opportunità per ristabilire l’ordine morale di una società che i benpensanti ritenevano in pericolo.

D’altronde, in quell’anno così particolare Braibanti rappresentava il nemico perfetto per la destra, erede di quei fascisti che da ragazzo lo torturarono trovando in lui un eroico stoicismo. Omosessuale, intellettuale, anarchico, si guadagna l’ostilità anche del Pci, poco disponibile a schierarsi dalla parte di un personaggio così fuori norma rispetto al canone comunista.

A favore dell’accusato si espressero Marco Pannella, Pier Paolo Pasolini, Alberto Moravia, Umberto Eco che seguirono e commentarono aspramente il processo. E soprattutto Elsa Morante, “che non dormiva” sapendo Braibanti e Sanfratello in quelle condizioni (le presta la voce la stessa Giardina, sottolineando quanto della vicenda la scrittrice degli ultimi sia in un certo senso la narratrice segreta).

Unico condannato per plagio nella storia d’Italia, Braibanti trascorse due anni in carcere, ritirandosi poi dalla vita pubblica fino alla morte nel 2014, alleviata da un tardivo vitalizio Bacchelli. Mentre il povero Sanfretello, nonostante una violentissima terapia comprensiva anche di quaranta elettroshock, non ha mai riconosciuto il plagio.

Nel restituire quello che da molti è considerato il corrispettivo italiano del processo contro Oscar Wilde, Palmese e Giardina si sono serviti di tre modalità. Testimonianze di chi c’era e lo conosceva bene (tra gli altri, il nipote Ferruccio Braibanti, Piergiorgio Bellocchio, Lou Castel, Dacia Maraini, Maria Monti), documenti d’epoca (foto dell’archivio di famiglia, i video d’arte inediti girati da Braibanti, i film sperimentali di Alberto Grifi, le registrazioni di Radio Radicale) e ricostruzione teatrale con attori che rievocano la vicenda.

Ciò che convince de Il caso Braibanti è proprio l’attenzione con cui gli autori hanno scelto di raccontare un evento decisivo per capire e interpretare un preciso momento della nostra storia: la partitura è complessa, gli intenti nobili, il risultato di gran pregio.