Un ronin caduto in disgrazia (Ebizo Ichikawa) si reca nella casa di un nobile maestro (Koji Yakusho) chiedendogli di ospitare il suo hara-kiri, il suicidio rituale che restituirebbe dignità alla sua stirpe. Ma è solo un bluff, il pretesto per portare a termine una doverosa, sanguinosa, vendetta.
Eccolo il colpo di grazia inferto alla retorica del guerriero, al codice del samurai e ai codicilli di un paese che ha dimenticato la pietà oltre l'onore. E' il Giappone del '600, ma questo è solo un dettaglio. Takashi Miike gratta via l'epidermide da un'epoca, ne cancella i tratti.
Astratto e assoluto come un kammerspiel, Ichimei - altro bel colpo del concorso - racconta una storia oltre il tempo, quella di una civiltà ingessata, defome sotto l'eleganza degli abiti e dei rituali, delle cortesie e delle forme. E' il secondo remake consecutivo per il regista nipponico dopo quello di 13 Assassins, e non sorprende: è il Giappone a rifare se stesso.
Miike lo percuote con la proverbiale cattiveria, contenuta però dentro una messa in scena sorpredentemente controllata, e una gabbia narrativa più convenzionale. Come le rockstar che diventano melodiche in vecchiaia, così il cinema di Miike si riscopre classico, al netto degli eccessi e della furia iconoclasta di un tempo. Tutto il film in fondo è un gioco di sponda tra passato e presente, di edifici narrativi e formali, in cui il regista fa viaggiare il suo cinema attraverso il meccanismo dei flashback, il cromatismo simbolico, il 3D usato in maniera assolutamente inedita (nè come gioco prospettico né per dare profondità di campo, ma solo al fine di costruire un filtro, un doppio spazio della visione). Lavorando con maestria vari registri stilistici: il wuxiapian, lo splatter, il melodramma, il dramma neorealista, la tragedia. Issando la bandiera dell'uomo sopra i vessilli di stato. Con una forza espressiva e un'intensità emotiva che mostrano il fiato corto solo nel finale, tirato troppo per le lunghe.