Si sono amati, Mathieu e Alice, e si sono lasciati (“Mi hai lasciata”, puntualizza lei). Quindici anni dopo si ritrovano: lui, attore di successo che ha mollato il suo primo spettacolo teatrale a dieci giorni dalla première, si rifugia in una spa specializzata nella talassoterapia; lei, insegnante di piano, vive sul mare, vicino alla struttura. Il tempo è passato, le loro vite sono quello che sono, le ferite cicatrizzate ricominciano a sanguinare: “Ero una sfigata e mi hai lasciato per una più bella di me” si lamenta lei, “Prendo gli antidepressivi per colpa tua” la rimbalza lui (tre pillole alla volta prima di coricarsi).

Ma è proprio vero, come sosteneva la signora della porta accanto, che “tutte le storie d’amore devono avere un inizio, un centro e una fine”? E il fantasma di Truffaut aleggia in ogni sguardo dei due, come un’ambizione impossibile, come se la realtà (del film) non fosse all’altezza della sua mitologia: e così le canzonette “che dicono la verità, perché più sono banali e più sono vere” ora rimbombano solo nella testa (e nel cellulare) di chi sa a chi dedicarle ma deve nascondere il segreto.

Ma non c’è tragedia, in Hors-saison, con cui Stephané Brizé torna in Concorso a Venezia 80: c’è la vita che se è andata in un certo modo un motivo ci deve essere, perché “ci sono le persone come te e ci sono le persone come me”; e c’è il desiderio di non voler essere come tutti (cioè quelli che si accontentano, che al conflitto preferiscono il silenzio, che non scappano nel cuore della notte), di continuare a credere che l’amore sia qualcosa d’irripetibile se non con chi abbiamo amato.

Hors-saison - Credit Michael Crotto
Hors-saison - Credit Michael Crotto

Hors-saison - Credit Michael Crotto

Ma Hors-saison, con il suo ricorrente côte ironico subito evidenziato per mettere in evidenza quanto il protagonista subisca gli eventi (Mathieu perseguitato dai selfie nei momenti più improbabili, un’assurda seduta di talassoterapia, una tragicomica esperienza con una macchinetta del caffè), svela qualcosa di davvero inaudito per un mélo del genere, lancinante solo per la comunione tra due personaggi convinti di avere il cuore in inverno e un paesaggio marittimo invernale di struggente malinconia (magnifica la fotografia di Antoine Heberlé, immersivo il commento musicale di Vincent Delerm). Svela, insomma, le due verità più scomode: che le cose finiscono e che non siamo persone straordinarie.

Quando si ritrovano, Mathieu e Alice sorridono, si riconoscono l’uno nell’altra, magari immaginano un futuro insieme: eppure del loro amore non sappiamo quasi niente. In un film molto parlato, i due si immergono nelle contingenze dei rimpianti, restano intrappolati nella nostalgia (la malattia infantile dell’amore), riscoprono la dimensione erotica del rapporto più per evitare l’atto mancato che per riaprire una storia.

Scritto da Brizé con Marie Drucker (è la voce autorevole della moglie di Mathieu), Hors-saison è tutto nel titolo, “fuori stagione”: non solo perché quel mare d’inverno può essere soltanto lo sfondo di “stanche parabole di vecchi gabbiani”, mentre il vento porta via l’ennesima lettera d’amore (sono i messaggi, pieni di emoticon e foto: a ogni epoca il suo romanzo epistolare), ma anche perché, che ne siano consapevoli o meno, Mathieu e Alice non stanno vivendo la stagione dell’amore che vorrebbero. Sono presi da loro stessi, dalle loro contraddizioni, dalle loro insoddisfazioni. E dimenticano, semplicemente, di essere persone normali, così come sentenzia Mathieu: “La verità è che sono un uomo banale”.

Forse la chiave reale del film non è il confronto con l’amore senile di un’anziana amica di Alice (innesto un po’ troppo programmatico, così come la lunga sequenza della festa che dovrebbe farci capire quanto quel loro ritrovarsi non è altro che una parentesi), ma il momento al ristorante, in cui il cameriere spiega un metodo molto crudele per non far soffrire i pesci: uno spillo che perfora il cervello, lasciando che muoiano dissanguati senza rendersene conto. È un’altra deviazione ironica di un film straordinario nel trovare il suo precario equilibrio tra lacrime e sorrisi, vissuto da due interpreti in stato di grazia: Alba Rohwracher non è mai stata così luminosa e Guillaume Canet è addirittura memorabile.