Tutti coloro che leggeranno questa recensione presumiamo siano già a conoscenza della sinossi, o perché lettori dei romanzi, o perché hanno visto i precedenti, o perché travolti dall'enorme trambusto mediatico che ha preceduto l'ultima avventura del maghetto. Andiamo subito al sodo dunque: Harry Potter e i doni della morte è un bel film? Complicato rispondere. Innanzitutto la sua configurazione in due parti separate (la seconda uscirà a luglio 2011!) impedisce di darne una valutazione d'insieme.
Qui non si avverte, come altre volte, la sensazione di trovarsi di fronte a un episodio aperto, di "raccordo", ma ci si imbatte in un vero e proprio film monco. Può darsi che il finale sia in crescendo, che la pellicola abbia un climax spostato tutto nella seconda parte, che l'esplosione delle rivelazioni e dei colpi di scena gli infondano ritmo e adrenalina. Oppure che la necessità di chiudere la partita nei tempi di un film dia una brusca e confusa accelerata. Chi può dirlo? Sappiamo solo che questa prima parte ricalca la struttura a fisarmonica degli altri (non solo quelli diretti da Yates): vorticose compressioni di eventi che sulla pagina (supponiamo) avranno goduto di maggiore spazio, intervallate da lunghe e noiosette scene interlocutorie in cui i tre piccoli protagonisti della saga - Harry, Ron ed Hermione - parlano tanto, si scambiano occhiate languide e occhiatacce, vagano confusamente ubiqui, in attesa - e noi con loro - che avvenga qualcosa: forse la scoperta di un Horcrux (i sette oggetti dove il malvagio Voldemort ha nascosto i pezzi della sua anima), forse l'attacco di un mangiamorte, forse una battaglia a colpi di bacchette laser.
Certo è che tutto il film pare costruito su una sintassi elementare di campo, controcampo e fuoricampo: nel primo troviamo un fantasy/action cupo e goffo, nel secondo il teen movie e la commedia di alleggerimento, nel terzo il libro. Scontato che i fan della saga letteraria giudichino i primi partendo dal terzo, e che la critica al contrario - per ignoranza e/o ortodossia - ometta proprio i romanzi dalle sue considerazioni. D'altra parte Harry Potter è un caso raro di adattamento cinematografico in cui tutti - aficionados da un lato, critici dall'altro - fingono che non lo sia: si attacca il film perché non è al livello del libro, si snobba il film senza considerare che è tratto da un libro. Non si scappa.
Narrativamente, non potrebbe essere diversamente, zoppicante, I Doni della Morte è però anche squilibrato strutturalmente, perché non riesce mai ad orchestrare in maniera convincente le sue diverse spinte - l'azione e l'alleggerimento, il thriller e la commedia - e perché finisce per smarrire alcuni personaggi (Piton che fine ha fatto?) e smarrirsi dietro ad altri (troppi, alcuni mai visti prima, quelli di contorno). Inoltre, quando ha la possibilità di esprimersi in modo compiutamente cinematografico - nell'inseguimento contromano dell'inizio, nella fuga tra i boschi che fa tanto New Moon, nell'attacco a sorpresa nel bel mezzo delle nozze - dà sempre l'impressione di essere al di sotto degli standard hollywoodiani di spettacolarità, un tantino contenuto, poco convinto. Viceversa, dove il film vince la sua partita col cinema è nel design - il ministero della magia è architettonicamente espressionista e funzionale a una rappresentazione del potere di stampo neonazista (mentre diventa esplicito in questo ultimo episodio il sottotesto sul razzismo di Voldemort/Hitler) - e nell'impronta fortemente metalinguistica lasciata da Yates.
Quest'ultimo è il punto decisivo per comprendere l'operazione, crediamo: il regista britannico sa trasmettere una suspense squisitamente hitchcockiana, perché non vuole "cogliere di sorpresa" lo spettatore ma metterlo nella stessa condizione di intruso dei tre protagonisti che rischiano di essere continuamente scoperti. Ovvero "visti", perché è sul visibile che si gioca l'intera partita de I Doni della Morte, quando ad esempio si diverte a invertire di continuo le posizioni dello sguardo (scambiando sovente vedente e visto), o suggerisce che il comune denominatore del cinema e della magia è, alla maniera di Méliès, il trompe l'oeil, l'illusione ottica, la metamorfosi fisiognomica, la moltiplicazione a specchio, l'occultamento (farsi invisibili) e la smaterializzazione (la dissociazione tra corpo e presenza). In questo il film rivela una profonda pulsione virtuale, non solo nel mettere in crisi lo statuto di conoscenza del visivo a vantaggio di altri sensi (il ghermidore che non può vedere Hermione la riconosce dall'olfatto; è la voce della radio ad informare i tre amici sullo stato delle cose; ed è la precognizione a suggerire ad Harry le mosse da fare), ma perché rinnega la natura fotografica e mnemonica del dispositivo - come si vede all'inizio, quando Hermione fa sparire la sua immagine dall'album di famiglia - per esaltarne le virtù demiurgiche, creatore di mondi e fisiche parallele.
Inseguendo il carrozzone postmodernista l'ultimo Harry Potter si sbarazza del supporto - del corpo come della macchina cinematografica - per liberare le immagini da ogni pesantezza, il significato dal significante, il digitale dall'analogico. Non è un caso se la cosa migliore del film è l'inserto animato. Così come non è innocuo suggerire che solo al momento della riunificazione (in-carnazione?) di figure e referenti, può sopraggiungere la morte. I cui doni somigliano tanto alle ciambelle di salvataggio del cinema.