James Gunn fa il procione. Piacione ci è, ma per chiudere la saga di Guardiani della Galassia regala al suo procione antropomorfo (ahia!) il ruolo di protagonista e il beneficio, quale film nel film, di una origin story su cui si innerva il “messaggio” del Volume 3: battito animalista e afflato umanista.

Già licenziato da Disney nel luglio 2018 per alcuni tweet inappropriati su Aids e stupro, reintegrato dopo otto mesi a furor di popolo (e cast), Gunn a fine novembre 2022 è passato alla concorrenza quale co-presidente e direttore creativo dei DC Studios: insomma, è l’omologo di Kevin Feige, il boss Marvel che qui lo precede nei titoli di testa. Ehm.

Dal 3 maggio in sala, il sequel è tanta roba: non solo il migliore dei tre, ma il più sensibile ed empatico, epico ed etico parimenti, ché per dirla con il regista e sceneggiatore classe 1966 “il primo film è una storia sulle madri, il secondo sui padri e questo su noi stessi, sicché la sua natura è più intima”.

Inconsolabile per la perdita di Gamora (Zoe Saldaña), Peter Quill alias Starlord (Chris Pratt) deve riunire la squadra per salvare Rocket, braccato da un passato di sfruttamento, e i Guardiani stessi, appena acclimatati a Knowhere e già chiamati all’estrema prova: non solo quella diegetica, ma quella commerciale, vale a dire risollevare la controllata Disney dal flop del primo titolo della “Fase Cinque” Ant-Man and the Wasp: Quantumania e da un vistoso appannamento al box office ultimo scorso, dopo l’exploit – secondo incasso di sempre con 2.799.439.100 dollari – di Avengers: Endgame.

Le potenzialità ci sono tutte, l’unione dei Guardiani fa poeticamente la forza, gli attori - Dave Bautista per Drax, Karen Gillan per Nebula – danno molto se non tutto e quando ballano nel finale sembrano sinceramente divertiti e “sciolti”, probabile merito di un regista che non solo sa il fatto suo, ma pure stare con gli altri- virtù che ha catalizzato la temporanea rentreé alla Casa di Topolino.

Solitudine galattica, estraniamento esistenziale, esternalità biopolitiche, i Guardiani si muovono nello spazio, ma con i piedi saldamente ancorati a terra: cattività, vivisezione, manipolazione genetica ed esperimenti meccanici, l’inflizione alle povere bestie – il procione, la lontra, il leone marino e il coniglio, ché invero fanno schifo e tenerezza insieme – è stigmatizzata nello specifico e, insieme, trasfigurata in chiave umanistica, a mo’ di volemose bene antispecista – e a mo’ di separazione di bello, buono e bravo.

Con i pezzi musicali, tra gli altri, di Radiohead, Beastie Boys e Florence + The Machine, Guardiani della Galassia: Volume 3 ibrida balle spaziali e body horror, fratellanza cosmica e tenerezza universale, sortendo una evidenza: la rielaborazione poetica e stilistica del superhero movie, già tentata da Gunn con lo sfortunato più che irrisolto The Suicide Squad (2021).

Di che non abbiamo parlato? Della nemesi, uno scienziato pazzo con la faccia liftata – leggi: chirurgia estetica - ossessionato dalle facoltà intellettive del nostro procione. Un male necessario, ma non sufficiente ad avvilire la terza e ultima volta dei Guardiani: lunga vita!