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Gran Torino
Walt Kowalski, da poco vedovo, sta seduto nel suo piccolo portico come un soldato stanco dopo tante battaglie. Beve birra, parlotta con se stesso o con il suo cane, Daisy. Osserva, accigliato e scorbutico, i nuovi vicini: Hmong che arrivano dal Laos, dalla Thailandia e dalla Cina. Per loro non sa trovare parole gentili e il razzismo, sordo e colpevole, di Walt lo tiene prigioniero dell'odio. Ultimo superstite, con il fucile, di una guerra mai finita che ha l'ambivalenza dell'intolleranza. L'old man che ha la postura e la faccia solenne di Clint Eastwood (di nuovo attore dopo Million Dollar Baby) vive ancora negli anni '50. È un reduce della guerra in Corea ed è un reduce delle catene di montaggio della Ford, prima che gli americani cominciassero a comprare automobili fabbricate in Asia. Non è un nostalgico, ma i giorni andati risuonano nella sua memoria come meravigliosi e l'idea sublimata del tempo perduto ha la linea, vintage ed elegante, di una magnifica automobile del 1972. La Gran Torino custodita con cura maniacale nel garage di casa. Il personaggio di Walt Kowalski, sostenuto dalla sceneggiatura, modulata tra archetipi e stereotipi, dell'esordiente Nick Schenk, è una variazione crepuscolare di Dirty Harry Callaghan. Esaminate tutte le differenze, Gran Torino è per Eastwod quello che Il grinta è stato per John Wayne. Walt-Clint (quando personaggio e attore vivono in simbiosi simbolica) ringhia e brontola contro tutto quello che non gli piace o che disapprova, porta la mano verso un'invisibile fondina e punta il pollice e l'indice contro i "nemici" come se le sue dita avessero incorporato una pistola pronta a sparare. Regista e attore prolifico (Gran Torino segue di pochi mesi Changeling) Eastwood è, per evidenti ragioni anagrafiche, sempre più attento all'idea di uomini in declino, in un'America che (la lezione di Letters from Iwo Jima resta esemplare) riflettendo su sconfitte, falle, errori, deve trovare l'energia e la volontà di una riconciliazione razziale, etnica, culturale. Il melting pot rimane la radice e la punta dell'albero, il dna irrinunciabile, il patto sociale del vecchio e del futuro grande Paese. In questa direzione si muove il suo cinema e i suoi film sono il riflesso di questa elaborazione iterata e coerente. La linea narrativa e la messa in scena di Gran Torino aspirano (non è una novità) ad una classicità d'altri tempi e a soluzioni dell'intreccio poco interessate ad un'originalità ottenuta con ogni mezzo e ad ogni costo. Il tentativo di furto della preziosa automobile, come prova di iniziazione per entrare in una gang da parte di Thao (Bee Vang), un adolescente introverso, figlio dei nuovi vicini, avvicina il grintoso Walt e il confuso ragazzo. Per entrambi comincia un corso di educazione affettiva e civica, la scoperta di se stessi e la riscoperta dell'altro. La piena coscienza che il piccolo prato davanti alla veranda non deve essere, ogni giorno, un muro o una trincea con il filo spinato è acquisita anche grazie all'incontro con Sue (Ahney Her, interpretazione fresca e convincente), la sorella di Thao. Più spigliata e decisa del fratello, snida il bilioso Walt e lo aiuta, insieme al prete cattolico che insiste per avere cura del suo dolore e dei suoi sensi di colpa, a depurarsi, a liberarsi dal ruolo di Scrooge e delle sue diffidenze. Gran Torino non è un film perfetto ma funziona su vari livelli. È una scocca disegnata e accessoriata su misura per Clint Eastwood. Nella sua interpretazione si sentono i cilindri e il rombo di un motore che gareggia sui circuiti del cinema da oltre cinquanta anni. Il pit stop può attendere.



