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Ghost Elephants
Con l’apparente semplicità che solo i maestri (quelli veri) sanno trasmettere, Francis Ford Coppola ha detto che Werner Herzog “ha inventato categorie che ancora non hanno un nome” tanto da poter “riempire le pagine di una enciclopedia”. L’occasione era la bella laudatio in occasione della cerimonia di consegna del Leone d’Oro alla Carriera assegnato al grande regista tedesco a Venezia 82: “Sono pronto a mangiarmi la scarpa se ce n’è un altro come lui”. È una frase a effetto, d’accordo, ma, riflettendoci, c’è un modo più accurato per parlare di questo titano che da più di mezzo secolo esplora i paesaggi interiori e le sfide al cielo di personaggi “fuori dal mondo”?
In un certo senso lo conferma Ghost Elephants, il documentario che Herzog porta a Venezia 82 per dirci che – almeno per lui – un premio alla carriera non è un tributo per far luccicare il crepuscolo, ma un attestato di fiducia e merito per un percorso coerente e appassionato. D’altronde il tema non è solo irresistibile ma quasi cucito su misura del regista: da dieci anni, sulle montagne dell’Angola, il dottor Steve Boyes è impegnato nella ricerca di un misterioso e sfuggente branco di elefanti fantasma – forse discendenti da Henry, il più grande elefante mai conosciuto dall’essere umano – che è l’unico che frequenta un altopiano boscoso praticamente disabitato le cui dimensioni sono pari a quelle dell’Inghilterra. Boyes si fa aiutare da un team composto da esperti scientifici e da cacciatori locali (con la benedizione del “re”, l’autorità tribale della zona), gli unici in grado di individuare le tracce di questi mitologici elefanti.


Ghost Elephants
E Herzog? È la voce fuori campo, commenta tutto con un distacco olimpico e non privo di ironia. Ma anche la voce di un autore che da sempre racconta le avventure smisurate di disperati sognatori e, in virtù di questa esperienza, può interrogarsi e interrogarci su una questione fondamentale: non sarebbe meglio lasciare che queste creature imprendibili abitino soltanto i nostri sogni, come fantasmi appunto, piuttosto che trovarli nella realtà e restare, perché no, delusi e privi di uno scopo?
Il riferimento a Moby Dick, peraltro dichiarato, è cristallino, ma la caccia narrata da Melville è solo uno dei semi che germoglia in questo ricco e composito documentario, targato National Geographic. C’è il racconto dell’evoluzione del rapporto tra uomini e natura, dalla caccia grossa testimoniata dall’agghiacciante frammento estrapolato dal mondo movie Africa Addio di Gualtiero Jacopetti e Franco Prosperi alla tutela di un baobab crollato affidata a due “guardiani”.
C’è il cambiamento nei comportamenti degli occidentali, passati dai predatori che si fotografano con le bestie catturate a chi fotografa da lontano quasi per non disturbare i legittimi abitanti di quei territori. C’è lo stretto legame con i miti ancestrali, con la convinzione che, venuti meno gli elefanti, verrebbe meno anche la civiltà. E c’è il grande tema del cinema di Herzog: l’ossessione come mistero che tutto muove. Per cosa? Per qualcosa che nessuno ha mai visto. Che altro?