Tratto dall'omonima miniserie inglese degli anni '80, The Edge Of Darkness (tradotto malamente con Fuori controllo) ne mantiene la furia e lo sguardo, adattandone gli scenari al presente: oggi come allora in cabina di regia c'è Martin Campbell, ma il milieu - geografico e politico - è americano, con uno scavalcamento di campo che abbandona la malridotta Europa (forse ancora corrotta, ma ormai senza più peso) per la nefasta Boston di William Monahan, dove se "tutto è illegale", allora di legalità nemmeno si può parlare.
Il problema non è più la legge, ma l'ethos, in uno spartiacque che separa nettamente due diverse stagioni del poliziesco e della vita del detective Thomas Craven, una specie di ispettore Klute (e Pakula potrebbe essere il regista occulto del film) per cui l'ordine morale coincide ancora con quello legale. Il "veterano" non a caso è l'appellativo che gli viene rivolto, e si capisce che l'etichetta non ha più nulla di onorevole, ma ratifica semmai un anacronismo tragico, un'incompatibilità col presente. Quando lo capirà anche lui sarà terribile: interpretato magistralmente da Mel Gibson - il cui corpo devastato dagli anni e dal veleno è il correlato tangibile di un'obsolescenza più profonda - Craven capisce di non poter inchiodare gli assassini della figlia (dopo Amabili resti, l'America si confronta nuovamente con il tema della perdita del figlio, e poco importa che si tratti in entrambi i casi di adattamenti), freddata nel vibrante incipit.
Il suo problema sarà allora ristabilire una "nuova" giustizia dopo che la legge è stata abolita dal consesso sociale. Non esiste più una catena di responsabilità nell'America di Campbell/Monahan, ma una matassa inestricabile di complicità, spregiudicatezza morale e cinismo, il cui unico obbligo è la segretezza. Craven non agisce ma re-agisce, quasi non ci fosse spazio d'iniziativa nell'ineluttabile, spietato, meccanismo di un mondo che non dà più scelta. Reazione fuori dall'etica anch'essa, semplicemente perché di etica non vi è più traccia.
Craven però non è il giustiziere di Charles Bronson, non ha nulla di ideologico. La sua è semmai esasperazione che fa rima con disperazione. Fuori controllo - poliziesco robusto, che sconta qualche dabbenaggine di sceneggiatura e il contrappasso di una realtà andata purtroppo ben oltre la fantasia - è veramente disperato, nel registrare la perdita di ogni assoluto morale, nella mattanza degli innocenti (e il sangue qui non ha nulla dell'allegro splatter dell'action contemporaneo, ma è grumoso, consistente, sacrificale), nel nichilismo del finale (che tanto ricorda quello di The Departed, scritto sempre da Monahan).
Alla fine un eroe c'è: è il personaggio più amorale di tutti - il superlativo Ray Winstone -, l'unico a non appartenere a nessuno, a passare da un ordine (morale) all'altro con assoluta noncuranza. Una specie di manovratore senza fini, passioni o moventi. Forse il dio che questo mondo si merita.