Essenziale ma non banale la storia di Fill the Void. A volerla ridurre all'osso è il racconto di formazione di una ragazza che diventa donna in circostanze un po' particolari. Semplice il suo linguaggio, ma appropriato. E' un film in interni, dove primi piani e piani medi si alternano con rigore logico e ratio narrativa. Lo si potrebbe descrivere come un kammerspiel dal découpage classico e obbligato dagli eventi. Eppure è un'opera originale, vitale, tra le migliori del concorso. Forza dell'ambientazione - una comunità ortodossa di Tel Aviv - e della delicatezza di un'autrice, Rama Burshtein, capace di farci entrare in un mondo assolutamente altro, il suo (la regista è di stretta osservanza chassidica), come se fosse l'accogliente salotto di casa.
Il primo vuoto miracolsamente riempito da Fill the Void è proprio quello che separa ogni spettatore non ebreo e non ortodosso dal particolarissimo milieu del film. Siamo a Tel Aviv, ma potremmo essere ovunque. Tutto si svolge - salvo qualche rarissima scena in esterni - nelle abitazioni di questi uomini dalle barbe lunghe, i turbanti e le trecce che arrivano al collo e delle loro donne con il classico sheitel in testa, sigillo al loro status di mogli. Vi aspirano tutte le giovani donne della comunità, compresa Shira (Hadas Yaron), la protagonista della pellicola. Quel che farebbe inorridire ogni giovane occidentale sano di mente, tra i chassidici è occasione di festa: Shira e le sue sorelle accettano di buon grado che siano le famiglie a fornire i nomi dei possibili mariti, giovanotti che spesso non hanno mai visto, figuriamoci frequentato. E' sufficiente una rapida occhiata al candidato per acconsentire ad incontrarlo. Si tratta di un momento intimo, ma controllato: si svolge nel salottino della casa della ragazza mentre i genitori navigano a vista nelle camere attigue. Se l'incontro conoscitivo va bene scatta il fidanzamento, che è una promessa non rivedibile di matrimonio.
Se tutto questo vi sembra poco romantico non avete capito niente. Oppure non avete ancora visto il film: l'entusiasmo di Shira per gli avvenimenti che di lì a poco segneranno il suo ingresso nel mondo delle donne è contagioso. E se di fronte a femmine remissive, matrimoni combinati e ruoli rigidamente separati e definiti da regole di vita millenarie, qualcuno pensa di poter indossare i paraocchi di uno sguardo ottusamente occidentale il problema è suo. La Burshstein offre allo spettatore il piacere della scoperta e il gusto del racconto, restituendoci una realtà sì chiusa e separata (eloquente il momento in cui gli uomini del clan, intenti a studiare, sbarrano la finestra per impedire alla disco-music che viene "da fuori" di disturbarli) ma non per questo detestabile o giudicabile. Ciascuno è invitato invece a superare gli n gradi di separazione, partecipando attivamente, non preventivamente, alla dialettica prossimità/distanza che la regista gli offre. Una dialettica replicata proficuamente anche all'interno del mondo narrato, dove i personaggi rivelano emozioni e turbamenti che squarciano d'improvviso la maschera rassicurante dei comportamenti ammessi. Merito ovviamente di una direzione precisa e di attori in stato di grazia. Hadas Sharon vince su tutti per il candore e il pudore d'altri tempi, ma anche gli altri servono come il pane: Yiftach Klein, che interpreta il cognato che Shira sarà "costretta" a sposare dopo la morte della sorella, ha un'intensità che ammorbidisce anche i sassi; e che dire di Irit Sheleg - "la madre", deus ex machina di tutta la vicenda, alla faccia della comunità patriarcale! - che fa passare tutta l'anima dagli occhi? Ma tutti, proprio tutti, posseggono una faccia che non si dimentica, una specie di antidoto al pericolo di assorbimento dell'individuale nel generale. Così come l'ironia, spesso usata dalla regista, si fa scudo dello strazio in cui piomberebbe il film se si lasciasse andare all'inerzia della tragedia. Fill the Void riesce invece a mantenere un magico equilibrio emozionale e a rivelarci, come in un racconto di Jane Austen, che da una realtà di questo tipo non sempre si deve fuggire. A volte basta trovare il modo per rimanerci, e vivere.